di Marco Ottanelli
CAPITOLO PRECEDENTE (PRIMA PARTE): il concetto di geopolitica; la nascita e l’espansione della Russia; le città imperdibili; la Prima Guerra Mondiale; l’Ucraina tenta l’indipendenza
L’Unione Sovietica
La Pace di Riga, firmata nell’ottobre del 1920, stabiliva la frontiera tra Polonia e quella che era ormai l’Unione Sovietica: alla Polonia andavano sia Vilnius, sia parte della Bielorussia, sia tutta l’Ucraina Occidentale con Leopoli. All’Urss, la rimanente Bielorussia, la Crimea, e tutta la Ucraina orientale, unificata con la Repubblica Popolare Ucraina, che assieme costituirono la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, con capitale dapprima Charvik e solo dal 1934 Kiev.
Visto che non stiamo trattando propriamente della storia dell’Ucraina, non ci addentreremo fino in fondo nel groviglio delle vicende e delle scelte politiche che hanno portato al cosiddetto Holomodor,1 la più atroce delle conseguenze che l’Ucraina subì dal comunismo leninista e stalinista, ovvero una carestia dovuta alle collettivizzazioni forzate e la repressione nei confronti di chi vi si opponeva. Tali misure non erano volte specificamente verso gli ucraini, ma, per via della qualità di quelle terre, fu proprio sull’Ucraina che si abbatterono con particolare veemenza. Se dal punto di vista umano tutto ciò fu immondo e deprecabile, dal freddo punto di vista geopolitico le stragi ed il terrore comportarono da un lato un controllo della Russia sulla regione come mai prima d’allora, e dall’altro contribuirono al sussistere di quel senso di diversità se non di ostilità tra Ucraina ed il suo enorme vicino orientale che, 90 anni dopo, rivive in tutta la sua tragicità.
Per quanto riguarda le altre direttrici geopolitiche, i leaders comunisti compresero la dura lezione delle guerre perdute appena trascorse, quella del 1905, contro il Giappone e la I Guerra Mondiale del ’14-’17. Dopo tali conflitti l’URSS si trovava completamente isolata e circondata da nazioni ostili. Il Mar Baltico, una volta dominio russo, era ora un bacino chiuso sulle cui rive, di russo, si affacciava solo Pietroburgo, anzi, con la nuova denominazione della città, Leningrado, espostissima ad attacchi e sbarchi. La capitale venne quindi spostata a Mosca (14 marzo 1918), cuore antico e ben protetto del Paese, e, anche grazie ai progressi tecnici e ingegneristici, si costituì la Flotta del Nord con basi principalmente nella penisola di Kola, sul Mar Glaciale Artico, flotta libera quindi di spaziare tra gli oceani, nonostante le difficoltà dovute ai ghiacci. Dopo anni di preparativi e migliorie, le ultime importanti navi militari furono trasferite dal Baltico ai porti di Arkangelsk e Murmansk. E questo nuovo baricentro avrà da lì a poco pesanti conseguenze. Nel Mar Nero vennero ulteriormente rinforzate e fortificate Odessa, Sebastopoli e Mariupol. Ma non era abbastanza.
La spinta delle forze, dei vettori, che aveva ricacciato la Russia verso est si stava esaurendo. O forse si stavano ricaricando le energie contrarie verso l’Europa: la costante, eterna oscillazione riprendeva ancora una volta il suo movimento. Infatti, una volta stabilizzatosi il potere e l’apparato militare necessario ad usarlo, l’Urss-Russia, approfittando delle crisi dell’Europa, in pochi anni tentò di recuperare tutte le province perdute dall’ex impero zarista. E così, nel 1939-40, con il patto Molotov-Ribbentrop che ne garantiva la sicurezza, l’Unione Sovietica di Stalin, tra minacce, ultimatum e invasioni, mutilò pesantemente la Romania, ri-occupò la Bessarabia, regione rumena che era a suo tempo appartenuta alla Russia, ma anche la Bucovina e la regione di Herta, che, al contrario, prima di essere rumene, erano state austro-ungariche. Mentre la Bessarabia, mutilata del suo accesso al mar Nero, divenne la Repubblica Socialista Sovietica di Moldavia, oggi indipendente, gli altri territori furono annessi all’Urss e inglobati nell’Ucraina, della quale tutt’oggi fanno parte. In seguito, sempre per controllare meglio il mar Nero ed i suoi traffici, Stalin dette l’ordine di occupare sei isolette (sempre rumene) alla foce del Danubio, isolette tra le quali vi è la ormai famosa Isola dei Serpenti, teatro di uno degli episodi (assai controverso) di resistenza patriottica ucraina nel conflitto del 2022. Le popolazioni di tutte queste aree vennero fin dai primi giorni massacrate, internate, deportate, nell’ambito di un progetto di russificazione spietato e impietoso.
Stalin ed i suoi strateghi non si fermarono. L’aggressione tedesca alla Polonia (1°settembre 1939), come previsto dal patto Molotov-Ribbentrop, venne seguita, il 17, dalla invasione sovietica delle zone est di quel Paese. In pochi giorni la campagna era conclusa. La Polonia settentrionale e orientale fu immediatamente annessa (nell’ambito dell’Urss, ovviamente) alla Russia e alla Bielorussia, mentre all’Ucraina andò la regione di Leopoli2. Come stava accadendo alle etnie rumene, anche i nuovi cittadini sovietici subirono il peso del tallone staliniano, della polizia politica, le uccisioni di massa (le fosse di Katin sono il caso più famoso), le deportazioni.
Rimaneva aperta la questione del fronte baltico; lo scoppio della II Guerra Mondiale fornì a Stalin l’occasione per “riprendersi” anche Lituania, Lettonia ed Estonia, la cui indipendenza era fortemente indebolita dalla presenza di forti minoranze russe. La loro occupazione nel giugno del 1940, avvenuta quasi senza scontri armati, e seguita dall’immancabile crudele serie di lutti e internamento, assicurò quindi all’Urss il possesso di tutta la costa baltica da Leningrado fino al nuovo – provvisorio – confine tedesco. Ma l’appetito di Stalin non era ancora soddisfatto: all’appello mancava ancora una preda.
Finlandia
La Finlandia era stata parzialmente conquistata dalla Russia nel 1720 durante la guerra del Nord, e poi definitivamente strappata alla Svezia nel 1808, durante le guerre napoleoniche. Trasformata in un Granducato autonomo, aveva goduto di ampia autonomia ed aveva percorso un suo processo di modernizzazione e di evoluzione civile molto accelerato (diritti civili estesi, istruzione pubblica, aveva il suo parlamento e anche le donne dal 1906 potevano votare ed essere elette). I finlandesi erano luterani, con una lingua propria ed una cultura ben distinta dal resto dei domini zaristi; quindi il tentativo di russificazione di Nicola II fu sentito come una vera sfida, e quando nel 1917 il potere centrale crollò, quel popolo fu tra i primi a proclamare la sua indipendenza. Il nuovo stato aveva uno sbocco sul Mar Glaciale Artico nella penisola di Kola, mentre a sud si estendeva lungo le coste del lago Ladoga fino a poche decine di km da Lengigrado. Due condizioni intollerabili che violavano la sensibilità delle basi navali russe. Così, fin dal novembre 1939, L’Urss passò all’attacco per sottomettere anche la Finlandia. La novità rispetto agli altri interventi fu che quest’ultima, pur avendo un esercito di piccole dimensioni, resistette strenuamente infliggendo perdite pesantissime alla fin troppo baldanzosa Armata Rossa. La Guerra d’Inverno durò molti mesi, e solo nel marzo 1940, prima di venir travolta dalla differenza numerica delle forze nemiche, la Finlandia chiese l’armistizio e fu costretta a cedere sia lo sbocco sul mare artico sia le sue province meridionali. Stalin confermava le linee geopolitiche precedenti: San Pietroburgo-Leningrado era il respiro del paese, ed ora era al sicuro. Ma tutto questo era solo il primo di una serie di eventi che, lo vedremo, si sono susseguiti fino ad oggi.
La II Guerra Mondiale
Come uno spietato pendolo della Storia, ogni volta che la Russia si protende verso occidente, trova una spinta contraria che la ricaccia indietro. Solo un anno separò le annessioni staliniane dalla invasione nazi-fascista. Alle truppe tedesche ed italiane si affiancarono anche quelle rumene, ungheresi e – in quali termini lo scopriremo – finlandesi. Le direttrici della più possente operazione militare della storia erano, ovviamente, le solite tre: una lungo la costa baltica, in direzione di Leningrado; una centrale, con obiettivo Kiev e Mosca; la terza lungo le coste del mar Nero con obiettivo Crimea e Caucaso. Devastata dalla potenza della armata hitleriana, accolta come esercito di liberatori dai popoli baltici e da parte di quello ucraino, l’Armata Rossa ebbe perdite dell’ordine di milioni di uomini e si ritirò verso oriente, lasciando nelle mani del nemico le sue terre più ricche e industrializzate. Proprio in quelle terre la ferocia nazista, e delle milizie filonaziste locali, toccò i suoi più infami, distruttivi e spietati picchi. I morti tra i civili si contarono a decine di milioni. Kiev cadde, la Crimea cadde; i rumeni ripresero le regioni da poco perdute e si accanirono con brutalità su Odessa. Mosca, per una combinazione di coraggio disperato sovietico e di errori strategici dello stesso Fuhrer, si salvò dalla occupazione. Ma l’intera Unione Sovietica stava per morire soffocata: solo l’invio di rifornimenti dal Pacifico le permise di riorganizzarsi, e, naturalmente, la eroica, spasmodica, quasi incredibile resistenza di Stalingrando e Leningrado, le due città martiri che pagheranno con sofferenze inaudite il ruolo chiave avuto nel conflitto. Però tra le due c’è una differenza: Stalingrado, dopo un primo assedio, cadde in mano ai tedeschi di Von Paulus, e fu sottoposta ad un contro-assedio sovietico. Leningrado, il polmone di Russia, non cadde mai. Perché tale differenza?
La finlandizzazione
Quando Hitler avviò l’Operazione Barbarossa, la Finlandia vi vide un’occasione di rivalsa per recuperare quanto perduto nella Guerra d’Inverno dell’anno precedente e, unica democrazia al mondo, si alleò con la Germania nazista nel nuovo conflitto contro l’Unione Sovietica; anzi, per i finnici la campagna del ’39-’40 fu, ed ancora è, così drammaticamente propedeutica a quella del ’41-’44, che chiamano quest’ultima Jatkosota, ovvero Guerra di Continuazione.
Le modalità con cui la Jatkosota si svolse, le scelte che vi furono fatte e le conseguenze che ne sono derivate (e che ancora oggi hanno un loro peso), sono tutte dovute alla genialità politico-militare di Carl Gustaf Emil Mannerheim, comandante supremo dell’esercito prima e presidente della repubblica finlandese poi.
Mannerheim condusse la guerra in modo autonomo e quasi separato dai tedeschi: non accettò che le forniture di materiale strettamente necessarie e, per quanto ne accogliesse un contingente di rinforzo, non permise alla Wehrmacht di passare dal suolo del suo Paese per manovrare contro l’Urss. Dotato di grandi capacità strategiche, puntò immediatamente alla cattura del porto di Murmansk sull’Artico (ma non vi riuscì, a causa della formidabile opposizione incontrata, e da Murmansk per tutta la durata della guerra i sovietici ricevettero rifornimenti da GB e USA) ed in seguito fece avanzare le sue truppe nei territori da “liberare” ed in direzione di Leningrado. Ed è qui che avviene la grande scelta politica di Mannerheim.
Quando Leningrado venne investita dall’avanzata nazista, diventò uno dei capisaldi della resistenza sovietica. Come tutti sappiamo, l’assedio al quale la città fu sottoposta fu uno dei più duri, spietati, tragici e drammatici dell’intera storia umana3.
Ma mentre a sud Stalingrado, come detto, cadeva (e si tramutava in una trappola per le armate germaniche), Leningrado fu comunque in grado di resistere fino alla liberazione; e, come abbiamo accennato, c’è un perché: in effetti, la ex capitale, la porta sul mondo, il polmone, il simbolo stesso della Russia, non venne mai completamente accerchiata. Nella sua avanzata attorno al lago Ladoga, Mannerheim non solo rifiutò di bombardare con la sua aviazione la città, ma fece intenzionalmente fermare le sue truppe lungo le sponde del fiume Svir, immissario del Ladoga. Era il 7 settembre 1941. Nonostante le reiterate, irritate, infine rabbiose richieste tedesche, il comando ed il governo di Helsinki non vollero mai passare lo Svir e ricongiungersi con la Wehrmacht bloccata un centinaio di chilometri più a sud. Anzi, fecero sapere esplicitamente agli alleati che non intendevano prendere parte all’assedio di Leningrado4 e, sostanzialmente, interruppero i combattimenti, trincerandosi sul fronte e lasciando così ai sovietici un po’ di respiro ed un labile, sottile ma essenziale corridoio per poter far giungere alla città assediata quel minimo di rifornimenti che ne permisero la salvezza. Mannerheim lo sapeva e lo disse: “i russi non ci perdonerebbero mai se dessimo il colpo di grazia a Leningrado”. Aveva talmente ragione che, quando nel 1944 l’assedio fu rotto ed anche il tranquillo fronte finlandese venne sfondato dall’Armata Rossa, questa si fermò a sua volta sui confini del 1940.
Perché, e ancora una volta ne abbiamo la conferma, solo salvando almeno uno dei suoi punti vitali, quella Pietroburgo-Pietrogrado-Leningrado così spesso richiamata in questo scritto, la Russia aveva potuto sopravvivere.
Alla Finlandia fu dunque risparmiata l’invasione e l’occupazione da parte dell’Urss, unico caso tra i paesi che le avevano mosso guerra, e mentre in tutti i paesi dell’est Europa e dei Balcani andavano al potere i comunisti, alla Finlandia fu permesso di mantenere il suo regime democratico e multipartitico. Certo, ad un prezzo: intanto, nel 1944, essa dovette dichiarare guerra alla Germania ed impegnarsi a distruggerne le truppe sul suo suolo (niente di nuovo, per noi italiani, che avevamo fatto lo stesso fin dal 1943): poi dovette cedere altre fette di territorio al vincitore; e soprattutto entrare in quel regime di status internazionale conosciuto appunto come finlandizzazione che era una sorta di neutralità piuttosto benevola nei confronti dell’Unione Sovietica. In altri termini, Stalin ed i suoi successori chiesero ai governi di Helsinki di non essergli ostili: non gli imposero partiti-guida, non li costrinsero ad aderire al Patto di Varsavia, non gli impedirono di avere strettissime relazioni con gli altri scandinavi e con l’Occidente, ma stipularono patti e accordi formali ed informali per cui tra i due paesi non vi sarebbero stati né confitti né tensioni. Ovviamente la Finlandia si impegnava a non permettere il passaggio di truppe straniere in caso di “aggressione all’Unione Sovietica”. E la pace tra le due nazioni ha retto per quasi ottant’anni. Ma oggi le cose stanno cambiando.
La fine della guerra, l’espansione massima
Nella prospettiva freddamente deterministica sulla quale abbiamo voluto impostare questo articolo, che non è di Storia ma di Geopolitica, il fronte orientale della II Guerra Mondiale altro non è stato che il solito scontro delle due forze eternamente contrapposte sull’eterna faglia che attraversa il continente. E lo scontro fu tanto poderoso (e quindi violento) quanto forti erano le forze contrapposte. Il cedere dell’una (la tedesca, ma in generale l’occidentale) liberò una enorme energia ad oriente, tant’è vero che le truppe russo-sovietiche sfondarono per la seconda volta in due secoli ogni ostacolo davanti a loro. Ma se nel 1814 erano giunte fino a Parigi marciando compatte attraverso nazioni amiche, nel 1945 dilagarono come un fiume in piena su mezza Europa, giungendo a Vienna, Budapest, Berlino, occupando la Cecoslovacchia, la Romania, la Bulgaria… solo la presenza di un’ulteriore linea di forze occidentali (gli anglosassoni che giungevano dall’Atlantico) le fermò. L’avanzata di Zukov – e degli altri generali- fu tanto impetuosa quando contrastata, perché, oltre agli eserciti tedeschi e dei loro alleati, si scontrò anche con quella componente nazionalista e filonazista attiva e combattiva nei paesi baltici e in Ucraina. È bene ricordare che il neonazismo organizzato e strutturato in Ucraina non è solo una fantasia di Putin: è esistito ed esiste. Fin dal primo giungere dei tedeschi, alcune formazioni ucraine presero attivamente parte alla lotta antisovietica (e visto quel che era accaduto negli anni ’30, vi era un che di quasi naturale) ma una parte di esse non si limitò a questo, bensì si integrò nelle SS e nelle altre strutture propriamente naziste, e partecipò con solerzia e zelo allo sterminio degli ebrei. Uno dei molti elementi che caratterizzò la natura della espansione russa dal 1944 in avanti è la violenza. Una violenza che, dalla occupazione militare dei paesi nemici, alla stalinizzazione e alle purghe conseguenti, dalla rivolta di Ungheria del 1956, alla primavera di Praga del ’68, dal muro di Berlino fino al golpe di Jaruzewsky in Polonia non ha mai cessato di essere esercitata. La Russia/Urss in quegli anni raggiunse la sua massima estensione territoriale e di controllo: alle Repubbliche Sovietiche di Bielorussia e Ucraina vennero annessi i territori già inglobati nel 1939-40, ed altri ancora; alla Russia vera e propria furono incorporate le regioni ex finlandesi al nord, un intero settore della Polonia e perfino una parte della Germania, quella provincia della Prussia Orientale che oggi, divenuta l’Oblast’ di Kaliningrad, è una exclave russa circondata da NATO e UE.
Non solo: grazie alla istituzione dei Paesi satelliti a regime comunista, l’ondata russosovietica era giunta fino al fiume Elba e al mar Adriatico. Lo scontro ideologico con Tito e con Hoxa trassero Juogoslavia e Albania fuori dal controllo, ma, per il resto, fino al 1989, tutta l’Europa dell’Est sarebbe stata sotto il dominio di Mosca.
Per quanto concerne i tre punti-chiave geopolitici che abbiamo sempre richiamato, nel secondo dopoguerra la Russia-Urss li potenziò e rafforzò: abbiamo appena detto della estensione centro europea con l’annessione di enormi territori mai prima russi. La riva sud del mar Baltico era tornata completamente sotto il controllo russo o di stati annessi o di stati vassalli, mentre Svezia e Finlandia, sull’altra riva, erano due nazioni neutrali. Sì, gli stretti verso il mar del Nord erano di competenza NATO (Norvegia e Danimarca), ma ormai il grosso della flotta, grazie ai progressi tecnologici, poteva facilmente rimanere di stanza tutto l’anno nei porti artici. Leningrado era quindi al sicuro, blindata e protetta.
Sul mar Nero, anche la situazione della Crimea e dei porti strategici vicini era di ampia tranquillità: l’Unione Sovietica si estendeva dal Caucaso alla Romania; quest’ultima e la Bulgaria, stati satelliti, coprivano un altro lungo tratto delle coste. Solo la costa Sud era di pertinenza della NATO, con la Turchia. Per quanto questa fosse padrona degli stretti, l’equilibro era comunque accettabile, purché non intervenisse qualcosa a turbarlo5.
È in questo clima di sicurezza che, nel 1954, dopo la morte di Stalin, Nikita Krusciov e la dirigenza sovietica decisero di trasferire, di donare, la Crimea all’Ucraina. L’ambasciatore Sergio Romano, spiega la dazione in questi termini:
fu certamente una scelta collettiva perché nessun membro del Comitato centrale avrebbe osato dissentire da Nikita Krusciov. A Kiev il dono fu accolto entusiasticamente. Nikolaj Podgorny, secondo segretario del partito comunista ucraino, disse che era manifestazione del «grande amore fraterno del popolo russo». Krusciov e Podgorny erano d’origine ucraina e, il secondo, in particolare era l’uomo a cui era stato dato l’incarico di «rimettere ordine» nella sua terra dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Entrambi sapevano che gli invasori tedeschi erano stati accolti entusiasticamente nelle zone del Paese in cui nessuno aveva dimenticato la brutale collettivizzazione della terra negli anni Trenta, la spietata lotta ai kulaki, la lunga carestia, il trasferimento forzato dei contadini renitenti al di là degli Urali. Vi era stato un collaborazionismo indigeno che si era manifestato, tra l’altro, con il reclutamento di 80.000 ucraini per la Divisione SS Galizien. E la «restaurazione dell’ordine» ad opera di Podgorny, dopo la fine del conflitto, era passata attraverso la eliminazione di gruppi armati indipendentisti che continuarono a combattere per parecchi mesi. Per reprimere e punire, Stalin non esitò a usare in alcuni casi il metodo della pulizia etnica. Se ne servì con i ceceni e con i tatari della Crimea: tutti deportati verso il Kazakistan e altre regioni dell’Asia Centrale. La donazione della Crimea all’Ucraina rientra in questo quadro. Le parole di Podgorny sono retoriche, ma il dono era un gesto di conciliazione e dimostrava l’importanza che lo Stato centrale attribuiva all’Ucraina per propria sicurezza e integrità.
Una piccola pausa metodologica
Abbiamo quindi visto con esempi storici in abbondanza che l’elemento deterministico delle forze geopolitiche, per quanto meccanico e avulso dai processi decisionali umani possa sembrare, è confermato. Riassumiamone i principi:
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in determinati luoghi della Terra si trovano linee, che abbiamo chiamato “faglie” sulle quali si esercitano spinte contrapposte.
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Tali linee rimangono costanti geograficamente a prescindere da quali popoli, stati, regimi siano stanziati lungo di esse
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tali linee sono mobili in una fascia più o meno ampia, sospinte come in un moto pendolare in una direzione e poi in un’altra
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l’ampiezza di tali oscillazioni dipende dalle forze contrapposte esercitate; al venir meno o all’accrescersi dell’una, conseguirà una reazione uguale e contraria dell’altra
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tanto maggiore è la forza esercitata, tanto maggiore sarà la sua estensione, ma altrettanto forte sarà, prima o poi, la spinta opposta, come in due molle che si caricano e scaricano vicendevolmente
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il moto pendolare tende sempre a riprendere, alla ricerca del punto di equilibrio: ogni volta che la faglia si spinge in avanti, c’è da aspettarsi inevitabilmente che alla prima occasione utile sia respinta indietro.
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Lungo queste faglie vi sono punti sensibili, punti il cui controllo o la cui perdita valgono il destino di una delle due parti. Solitamente è in quei punti che lo scontro si fa più acceso e sui quali scoppiano i conflitti
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alla luce di tutto questo, oggi, pensare che la Russia accettasse di essere compressa all’infinito era povera e miope illusione
La compressione della Russia.
Dopo la crisi del comunismo, la caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989) ed il crollo dei regimi dell’Est, nel marzo del 1991 si sciolse il patto di Varsavia, l’alleanza contrapposta alla Nato con a capo l’Urss. I paesi che ne facevano parte non solo si liberarono del pesante giogo sovietico ma immediatamente chiesero l’adesione alla Nato e alla Unione Europea6. È importante, basilare anzi, notare come essi prima aderirono al Patto Atlantico. Ma procediamo per gradi.
Il dominio russo-sovietico era stato violento, dicevamo, in quanto necessariamente militare, armato, blindato; nonostante tutti i timori e/o le propagande occidentali, molto più difensivo che non offensivo, teso a mantenere la linea, la faglia est-ovest tanto avanti quanto mai giunta prima; troppo avanti, come si è visto, e quindi instabile, quindi pronta a tornare verso il punto di equilibrio, quindi caricata per più di mezzo secolo di una incredibile (e violenta!) energia, energia talmente alta da portare, con uno scatto improvviso come di un immane elastico, la faglia est-ovest dalla sua massima espansione verso i mari caldi alla sua massima regressione verso le steppe asiatiche. Perché il crollo del comunismo e la caduta del muro non solo sottrassero dalla sfera russa i paesi satelliti; non solo sottrassero dalla sfera russa la Moldavia ed il Caucaso; non solo sottrassero Lituania, Lettonia ed Estonia, ma per la prima volta ne amputarono via Bielorussia e Ucraina, riportando i confini russi alla situazione precedente le conquiste degli zar Alessio, Pietro e Caterina; con la concomitante perdita di quegli spazi centro asiatici divenuti stati indipendenti.
Le ragioni ed i motivi della dissoluzione dell’URSS sono un groviglio di complessità e di responsabilità: la gestione del potere di Gorbaciov, troppo ottimista ed incapace di conciliare libertà e centralismo; la crisi economica cui l’Occidente non volle porre alcun rimedio o fornire alcun serio strumento di contrasto; l’ondata nazionalista di quel periodo così in molte zone d’Europa e del mondo; il ruolo di Boris Yeltsin e la sua voglia di potere; l’antistorica resistenza del PCUS ed il grottesco golpe da esso organizzato; il senso stesso della fine di un’epoca e di un sistema che aveva pervaso milioni di (ex) sovietici.
I paesi Baltici ottennero l’indipendenza ed il suo riconoscimento immediato da parte dell’Occidente: in fondo, parlavano lingue non russofone, erano di altra religione e cultura, ed erano stati indipendenti nel passato. Ma Bielorussia e Ucraina, coi loro confini che comprendevano pezzi di Ungheria, Polonia, Romania, Slovacchia… perché, a che titolo potevano vantare, di fronte al consesso internazionale, una indipendenza? Qui dobbiamo fare un piccolo passo indietro, e tornare al 1945, alla nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Come noto, l’ONU venne fondata dalle potenze che avevano vinto la guerra contro l’Asse, e dai loro alleati. Gli sconfitti (inclusa l’Italia) furono ammessi solo un decennio più tardi. Ma, sia nel consiglio di Sicurezza che nella Assemblea Generale, l’Urss comunista si trovava in assoluta solitudine. Fu per questo che Stalin chiese, impose ed ottenne di far aderire all’ONU anche due repubbliche sovietiche, proprio la Bielorussia e l’Ucraina, con tanto di delegati, seggio e diritto di voto. Insomma, proprio come se fossero Stati indipendenti: nel 1991 fu quindi assai facile rivendicare tale status dal punto di vista del diritto internazionale.
Pur nella sua immensità, la Russia, nell’ultimo decennio del XX secolo, era ridotta ad un piccolo, chiuso, limitato destino artico-siberiano.
Ma la cosa peggiore era l’accerchiamento della pressione ai suoi confini sensibili.
La NATO ovunque
La Nato ed i suoi alleati cominciarono fin da subito, fin dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, ad occupare gli spazi dove si era creato un vuoto di potere: in Africa (intervento in Somalia), in Medio Oriente (intervento in Iraq), nel Centroamerica (interventi in Nicaragua, Panama, Grenada, Salvador), nei Balcani (intervento in Serbia), solo per parlare dei più militarmente consistenti. Ma le truppe americane e Nato si spinsero fino ai confini stessi dell’ex URSS (intervento in Afghanistan) e fino ai confini proprio della Federazione Russa (basi militari in Georgia, in Kirghizistan, in Uzbekistan, in Tagikistan, tutte repubbliche ex sovietiche). Nello spazio di un quinquennio, entrano a far parte della NATO tutti quei territori che per mezzo secolo hanno costituito per la Russia una irrinunciabile garanzia.
Il processo non è stato né così lineare né così – come dire – aggressivamente unidirezionale, e merita un certo approfondimento.
Col crollo dell’Unione Sovietica, il mondo intero, il cui equilibrio si basava sul bipolarismo Est-Ovest, si trovò in una situazione di grave incertezza e di violenti riposizionamenti politici ed economici. Regimi, gruppi armati di guerriglieri e alleanze cadevano e si sfaldavano7, grandi mercati si aprivano ed altri implodevano, il rischio rappresentato dagli armamenti anche atomici fuori controllo spaventava gli osservatori.
In un clima simile, l’unico punto di riferimento, nel bene o nel male, rimanevano gli Stati Uniti e la loro grandiosa rete di alleanze e relazioni finanziarie e commerciali. Nel bene e nel male, gli unici che potessero fungere da Grandi Investitori e da Poliziotti del Mondo erano gli Usa, e con loro l’Occidente, in quel momento sistema trionfante e apparentemente infallibile. È quindi piuttosto sbrigativo dire che la NATO si è espansa ad est in funzione puramente antirussa: in realtà ogni Paese volle aderirvi con motivazioni proprie e con aspirazioni forse inizialmente più economiche che militari, o piegando, un po’ impudicamente, le seconde alle prime, e addirittura, per un breve lasso di tempo, persino la Russia ipotizzò la sua adesione al Patto Atlantico.
La candidatura non venne mai ufficializzata ma fu seriamente valutata ai massimi livelli. Sia Yeltsin che Vladimir Putin in persona, dopo aver constatato che la promessa verbale fatta dagli occidentali di non estendere la Nato a Est era stata inghiottita della Storia, sondarono e trattarono con i paesi occidentali e con Washington in primo luogo per essere inclusi in quello che avrebbe dovuto diventare una sorta di immenso e solidissimo sistema dell’intero Emisfero Nord, esteso lungo tutti i 360 meridiani. Ma questo sogno paneuropeo, lo stesso in fondo che la Russia persegue da Pietro il Grande in poi8 era destinato a fallire. Per quanto è dato sapere, i colloqui ci furono, ma la Russia voleva un trattamento alla pari, uno status, all’interno della alleanza, allo stesso livello, con gli stessi poteri espliciti ed impliciti degli USA. Ma, come ci insegna la scienza politica, qualsiasi istituzione tende ad espandere il proprio potere e in assoluto a non cederne mai una parte ad un’altra istituzione. Gli USA sono indubbiamente il primus inter pares nei confronti degli alleati; anzi, diciamocelo chiaramente: sono il primus super pares; ulteriormente: sono il dominus incontrastato di una gerarchia di fatto nella quale, lo sappiamo, l’Italia non è ai vertici. Quindi l’idea di un… duumvirato risultò inaccettabile per gli americani. Contemporaneamente tanto nelle politiche russe quanto in quelle americane le divergenze presero rapidamente il sopravvento sulle convergenze: interventi militari, conflitti locali, politiche interne incompatibili… Tutto un insieme che portò al fallimento della ipotesi di alleanza e in seguito ad aperta ostilità.
Ma è l’ingresso nella NATO di Estonia, Lettonia e Lituania, nel 2004 che maggiormente viola gli equilibri e mette profondamente a rischio l’esistenza stessa della Russia.
Basta guardare le mappe geografiche degli ormai noti tre punti-chiave da noi individuati per rendersi conto di quanto gli equilibri siano compromessi. In Europa Centrale, solo l’autocrazia bielorussa fa da filtro tra i due mondi opposti che si fronteggiano. L’Ucraina è scossa da tensioni violente, tensioni nelle quali gli USA hanno apertamente un ruolo; Il Mar Nero è circondato da paesi NATO (Turchia, Bulgaria, Romania); le grandi basi navali, le grandi città “russe” (Odessa, Sebastopoli e Mariupol) con tutta la Crimea sono sotto la sovranità di Kiev. Nel Mar Baltico ormai tutta la costa sud è NATO, mentre Svezia e Finlandia, seppur neutrali formalmente, entrando nella UE fanno ormai corpo unico con gli alleati atlantici. San Pietroburgo è in un cul de sac. La Russia sente il cappio posarsi attorno al collo, e dà segni di nervosismo crescente; come potrebbe mai reagire se il cappio si stringesse?
Il cappio si stringe, la dinamica geopolitica non sì può fermare.
Un Paese, esteso e complesso quanto si voglia, non può permettersi di morire soffocato, l’abbiamo detto molte volte. Il laccio, il cappio, non si può stringere all’infinito senza che vi sia una reazione, questo è palese e ovvio per tutti. L’intelligenza sta nel sapere fino a quale limite lo si possa serrare.
Il panorama geopolitico della Russia degli anni 2000 è il seguente, dunque: la faglia, la linea rossa di tensione, non si è mai spinta così a est. Gli alleati sono spariti, indeboliti, o bloccati nei loro problemi interni, come Cuba e Venezuela. Alcuni di essi sono stati letteralmente annichiliti dagli interventi americani e Nato. In altri paesi ex sovietici diventano presidenti della Repubblica personaggi aventi profondissimi legali economici e politici con gli USA e l’Occidente, come Valdas Adamkus in Lituania , Toomas Ilves in Estonia o Vaira Vīķe-Freiberga in Lettonia. Lo stesso succede in Georgia, dove prende il potere, in un clima di disordini e violenza, un altro “americano”, Mikheil Saak’ashvili, che ha la caratteristica peculiare di essere un [discusso] politico georgiano e ucraino, avendo ricoperto cariche importantissime sia per Tblisi sia per Kiev. Quest’ultimo caso, quello della Georgia, è tragicamente più famoso degli altri, perché fu un vero e proprio golpe, un cambio di regime esplicitamente e orgogliosamente eterodiretto dagli USA. “Rivoluzione delle rose”, lo chiamarono romanticamente i media occidentali. Tale rivoluzione non era diretta a spodestare un despota sanguinario, ma il povero Eduard Shevardnadze, personaggio di alto profilo internazionale che non era certo da considerarsi filo russo. Anzi, egli aveva dovuto accettare un pesante armistizio per la questione osseta, ed aveva dovuto difendere il suo Paese dalle mire panrusse nel Caucaso di Eltsin e Putin9.
Contemporaneamente, siamo nel 2004, altre rivoluzioni arancione – sempre in favore di politici appoggiati e incoraggiati da Usa e NATO – scoppiarono in Kirghizistan ed in Ucraina; e per l’Ucraina sarebbe stata solo la prima. Il cappio al collo della Russia si stava stringendo sempre più forte. Il vettore geopolitico spingeva sempre più potentemente. Qualcosa doveva succedere, per forza.
Qualcosa succede.
Le mille tensioni del disfacimento russo-sovietico non sono state senza conseguenze. Intanto, ricordiamolo, in Cecenia si consumarono due terribili e crudelissime guerre, le quali però non furono particolarmente osteggiate né criticate dall’Occidente, essendo quella repubblica caucasica lontana dalla zona di tensione. Sempre nel Caucaso scoppiò un conflitto tra Armenia e Azerbaigian per il controllo della regione del Nagorno Karabak che merita una piccola digressione.
Gli armeni sono cristiani (anzi, l’Armenia è lo stato cristiano più antico del mondo), hanno una forte identità “europea” e hanno fatto del loro paese uno dei più democratici dell’ex URSS. L’Azerbaigian è un paese turco-musulmano, proiettato verso Ankara e le nazioni turcofone, ed è una autocrazia governata con pugno di ferro dalla dinastia degli Aliyev (che si son trasmessi la carica di Presidente di padre in figlio). La logica dell’occidente buono e democratico tenderebbe a collocare l’Armenia tra i nostri alleati e a trattare l’Azerbaigian come la Bielorussia. Ma la presenza di abbondantissime riserve di gas e petrolio, venduti tramite oleodotti e gasdotti in continua estensioni (il TAP!) hanno fatto in modo che il regime di Baku non solo sia trattato coi guanti, non solo sia in una sorta di partenariato con la NATO, ma faccia parte di una alleanza regionale denominata GUAM e benedetta dagli USA, con Georgia, Ucraina, e Moldavia e alla quale partecipano come “osservatori” Turchia e Lettonia, due paesi appunto appartenenti alla NATO. Quasi per naturale conseguenza, l’Armenia è legata alla Russia, assieme con Bielorussia, Kazakistan, Tagikistan e Kirghizistan in un patto detto OTSC10.
Ma lo scontro che suscita la preoccupazione del mondo è quello tra Georgia e Russia stessa, una vera e propria guerra per la questione dell’ Ossezia del Sud. Questa, abitata da una etnia diversa da quella georgiana, proclamò l’indipendenza fin dal 1991. Il governo di Tblisi (che a sua volta aveva proclamato la secessione dalla URSS) non l’ accettò e mandò l’esercito. Ci furono duri scontri e molte vittime, e le violenze si protrassero per più di un anno e mezzo. A fianco degli osseti intervennero apertamente i russi, ma dato che all’epoca il presidente russo era Yeltsin, considerato amico dell’occidente, nessuno ebbe niente da ridire. Ben diverse sono state le reazioni riguardo la Seconda Guerra dell’Ossezia del Sud, quella del 2008. I leader dei paesi coinvolti erano cambiati: uno era Vladimir Putin, con la sua esplicita volontà di riportare la Russia allo status di grande potenza; l’altro era Saak’ashvili, con la sua esplicita volontà di portare la Georgia nella NATO. Quindi, quando le forze armate georgiane attaccarono vigliaccamente l’Ossezia, bombardandola ed invadendola durante la diretta dell’inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino, dopo i primissimi giorni di stupore e solidarietà con gli osseti, colpiti a tradimento11, i media occidentali cambiarono spartito, e cominciarono a parlare di aggressione russa alla Georgia (e lo fanno tutt’oggi) filostatunitense. Limes e Approfondendo dedicarono a quei fatti articoli documentati e dettagliati. Ma oggi la memoria euroamericana ricorda solo la [contr]offensiva russa.
Questo conflitto, e questa – come possiamo chiamarla? – incomprensione occidentale verso le sofferenze dei popoli russofili, e verso le ragioni della Russia stessa, che si riteneva la difenditrice di una minoranza oppressa e aggredita, furono interpretate da Putin e da larga parte della opinione pubblica russa non solo come il punto di rottura di una possibile collaborazione tra pari, ma come un vero e proprio atto di ostilità, che concretizzava quella sensazione di pressione, assedio e soffocamento che da anni teneva il gigante euroasiatico in crescente apprensione. La Georgia americanizzata e candidata NATO, non scordiamocelo, affaccia sul Mar Nero, quel mare così claustrofobicamente vitale. Per Putin, e per la Russia, da quel momento in poi, nessun altro atteggiamento ostile sarebbe stato tollerabile.
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– QUARTA PARTE: la pandemia, il precipitare degli eventi, l’inizio della guerra
– TERZA PARTE: i fatti di Maidan, della Rivoluzione Arancione e delle sue conseguenze; le tensioni crescenti con la NATO
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– PRIMA PARTE: il concetto di geopolitica; la nascita e l’espansione della Russia; le città imperdibili; la Prima Guerra Mondiale; l’Ucraina tenta l’indipendenza
- Una buona ricostruzione dei fatti è presente a questo link https://it.gariwo.net/educazione/approfondimenti/holodomor-3502.html [↩]
- 5 milioni di ucraini, 4 milioni di polacchi, 2 milioni di bielorussi e oltre un milione di ebrei furono dichiarati “cittadini sovietici” [↩]
- Durante i due anni e cinque mesi d’assedio, a Leningrado morirono non meno di mezzo milione di soldati sovietici, ai quali vanno aggiunti altri tre milioni di dispersi, feriti, prigionieri. Tra la popolazione civile, i morti sotto i bombardamenti furono circa 17.000, ma tra le 800.000 ed il milione di persone perirono di fame e di stenti. Si verificarono episodi raccapriccianti sopra ogni immaginazione, compreso un vero e proprio mercato semi clandestino di carne umana. Le perdite dell’Asse assommano a più di 500.000 [↩]
- Fu lo stesso ministro degli esteri Witting a comunicarlo di persona all’ambasciatore americano. Gli Usa, infatti, non erano in guerra con la Finlandia, al contrario della Gran Bretagna, la quale, seppur a malincuore e senza che alcun atto militare ne fosse mai seguito, le aveva dichiarato guerra per solidarietà con l’alleato sovietico [↩]
- Ed infatti la dimostrazione, l’ulteriore dimostrazione, della essenzialità per la Russia di questo equilibrio, venne alla luce nella cosiddetta “crisi di Cuba”: in realtà essa era una conseguenza del posizionamento di missili americani a lunga gittata Jupiter proprio in Turchia [↩]
- Ufficialmente l’Unione Europea, che integra e sostituisce la CEE e le Comunità Europee, è stata istituita nel 1993 [↩]
- non solo quelli comunisti più o meno filosovietici, come in Etiopia, in Mongolia, in Mozambico e Angola e in molti altri paesi, ma anche le dittature fascista latinoamericane, o il sistema di apartheid in Sudafrica… gli esempi sono decine [↩]
- «La Russia fa parte della cultura europea. E non riesco a immaginare il mio paese isolato dall’Europa e da quello che spesso chiamiamo il mondo civilizzato». Dichiarazione di Putin al giornalista britannico David Frost, 5 marzo 2000 [↩]
- Eppure, per l’America del dopo-guerra fredda, il gorbacioviano Shevardnadze era un ostacolo, così come lo stesso Gorbaciov lo fu finché rimase presidente dell’Unione Sovietica. Gli USA desideravamo l’annientamento dell’ex nemico ed una politica economica completamente svincolata dal “socialismo”. Inoltre, grandi figure a livello internazionale come quelle di Gorbaciov e del suo ministro Shevardnadze rischiavano di frenare la capacità di penetrazione americana nei paesi che una volta erano sotto l’influenza sovietica. [↩]
- Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, che prevede anche la possibilità di intervento degli altri partners in caso di disordini e crisi in uno di essi [↩]
- Ad esempio, l’inviato nel Caucaso di Repubblica, Pietro del Re, non aveva alcun dubbio: “le truppe di Tblisi hanno attaccato la repubblica separatista” dice in questo video https://video.repubblica.it/mondo/il-conflitto-in-ossezia-del-sud/22792/23612?video [↩]