di Marco Ottanelli
Lasciata Antrodoco e le sue memorie risorgimentali alle spalle, entrambe strappate all’Abruzzo nel 1927, s’entra in provincia de L’Aquila in un panorama di montagne e altipiani, la cui bassissima antropizzazione consente quel senso di passaggio che meglio ti allontana dalle caotiche autostrade tosco-laziali e ti da la profonda contezza d’essere altrove. La strada corre con arditi saliscendi verso il capoluogo, che ti trovi stagliarsi difronte quasi d’improvviso, con la quinta suggestiva del Gran Sasso.
L’Aquila
Come spesso accade in comunità e località che hanno subito un trauma, un lutto, nella città del lungo dopo-sisma si respira una gran voglia di vivere, un’atmosfera quasi d’allegria. I volti, le espressioni, l’aspetto stesso degli aquilani l’esprime in modo diretto, ed essi si affollano in gran numero lungo il corso e nelle piazze del centro, riempiendone chiassosamente bar, gelaterie, pub, ristoranti ed ogni spazio disponibile in slarghi e giardinetti. Non sono solo giovani e studenti, ma persone di ogni età, dai bambini agli anziani, tutti molto coinvolti. C’è anche una discreta quota di turisti, e l’insieme è luminoso, brillante, tirato a lucido dai restauri e ammodernato da – intuiamo – risarcimenti e contributi.
Come sempre avviene quando piovono i contributi, i prezzi però volano in alto, e la voglia di innovazione un po’ pacchiana travolge a tratti quella rustica tradizionale semplicità che caratterizza un luogo. È successo – ad esempio – in ogni città “capitale della cultura” o protagonista di qualche grande evento; qua, dove lo choc è stato così forte e così forte la necessaria reazione, l’effetto si nota più che altrove. E come spesso accade in comunità che hanno subito lutti e traumi, accanto all’allegria, o forse nascosta dietro di essa, permane una grande malinconia. La si nota nella poca voglia, nell’evitare, nel disagio che si riscontra ogni volta che si tocca l’argomento terremoto. È un argomento non gradito, che richiederebbe di mettere allo scoperto ancora troppe sensibilità, del quale comunque non piace parlare. E così anche fisicamente, ma persino con lo sguardo, gli aquilani evitano le zone ed i palazzi e le strutture ancora in rovina che si trovano praticamente ovunque.
Perché una parte consistente, che non sappiamo valutare in percentuale, ma consistente della città è in macerie. Ci sono interi isolati, intere strade, intere zone dove le transenne appena contengono palazzi crollati e devastazioni complete, dove gli scheletri di edifici si affiancano a cumuli di calcinacci, dove terra di riporto, mattoni e tegole si ammonticchiano ad un passo da caseggiati pericolanti; Da lì non passa nessuno, e non solo perché non ci son negozi o localini. Ci troviamo spesso soli per centinaia di metri, svoltando tra chiese ormai marce e portoni divelti. Oppure, altrove, in un contrasto stridente, ci troviamo in zone in cui il restauro, la ricostruzione, sono sì avvenuti ma in modo così assoluto ed algido per cui le facciate e le finestre nuove di zecca si susseguono in un ambiente sterile, con abitazioni perfette formalmente, vie ineccepibilmente messe a nuovo, fondi commerciali con vetrine a giorno immacolate, ma il tutto è completamente vuoto, disabitato, artificiale. Finto.
E se questa scacchiera di zone ricostruite e vive e zone crollate e morte suscita una certa angosciosa alternanza di sentimenti, la vicinanza, la contiguità del nuovo col rovinato è altrettanto sorprendente: in ogni angolo della città, dalla periferia coi suoi palazzoni ai luoghi più celebri e celebrati, trovi case e costruzioni rifatte da cima a fondo alle quali si appoggiano stabili abbandonati e macerie coperte di erbacce. Davanti alla Fontana delle 99 cannelle, vicino alla Cattedrale, nei quartieri che scendono verso la Collegiata, è un puzzle di rifatto e di disfatto. Ti viene da chiederti quale sia stato il criterio per cui si sia proceduto a ricostruire quel palazzo e non quello accanto. Perché un edificio sia metà abitato e metà sfondato. Perché un civico sia stato restaurato e il civico difronte non esista più.
Per avere un quadro complessivo, andiamo a visitare le famose “casette”, i quartieri voluti dal governo Berlusconi e da Bertolaso per collocare i cittadini in attesa del completamento della ricostruzione. Ricordiamo le feroci polemiche politico-televisive di quegli anni, con le opposizioni e le trasmissioni d’assalto che criticavano l’operazione con due argomenti principali: la bruttezza/fragilità di queste “casette” e la deportazione della popolazione. Non pochi furono gli appelli e le raccolte di firme per evitare la costruzione dei nuovi, provvisori quartieri e per far, invece, collocare gli sfollati in container e roulotte in modo da accelerare i tempi. Il governo e la maggioranza del tempo replicavano sostenendo la perfetta e futuribile urbanistica di quelle nuove abitazioni, e la loro comodità rispetto alle baracche. Tra un Berlusconi che portava le chiavi e i fiori alla vecchietta che otteneva la casa e un Santoro che intervistava un’altra vecchietta che lamentava tubi gocciolanti e balconcini instabili, non ci si capiva niente.
A vedere coi nostri occhi, ci siamo resi conto di quanto il dibattito pro e contro fosse… spostato. La realtà è che quei quartieri non sono né un lager infernale né una paradisiaca città giardino. Sono quartieri dormitorio, con strutture e complementi moderni: i condomini (più o meno bruttarelli) sono luminosi, ariosi, financo panoramici; ogni abitazione ha il suo parcheggio privato; tutte le strutture sono antisismiche e circondate da verde e giardini; ci son fermate del bus e scuole. Condizioni invidiabili per milioni di italiani che vivono in orridi casermoni di periferia o in degradate conurbazioni senza alcuna pianificazione. Ma allo stesso tempo sono prive di qualsiasi elemento di aggregazione e comodità sociale: non ci sono negozi, non ci sono edicole, non ci sono bar, non ci sono piazze, non ci sono uffici. Tutto è a L’Aquila, quindi lontano. Durante il giorno non c’è nulla da fare, si prende la macchina e si va in centro, anche solo per comprare un po’ di pane. Non c’è un punto focale, tutte queste piccole newtown sono identiche a sé stesse, seppur diversissime.
E improvvisamente realizziamo che il problema, la questione, non è belle o brutte, ma cosa farne, una volta che (si spera) gli aquilani saranno tornati alle loro primitive abitazioni. Perché a quel punto, se mai ci si arriverà (qualche dubbio ci viene), rimarranno questi micropaesini vuoti e abbandonati, con le loro palazzine, le loro fognature, le loro linee elettriche… Ci chiediamo quale sia il progetto, il piano, dei governi nazionali e delle amministrazioni regionali e comunali in proposito: riportare tutti in centro e abbattere le newtown? Oppure lasciar lì gli attuali residenti ed integrarli con la città antica? Favorire un popolamento di decine di migliaia di nuovi abitanti per colmare i grandi vuoti? Destinare questi quartieri a università, caserme, aree commerciali? Ma, soprattutto ci chiediamo: un progetto, un piano… C’è?? O tutto è stato lasciato al caso, ad un futuro confuso e incerto?
Terre di provincia
L’Aquila ha, comunque, dei tratti di modernità e contemporaneità che nel resto dell’Abruzzo tendono a rarefarsi e quasi ad annullarsi. Non che le terre di provincia che attraversiamo siano arretrate, sia chiaro; ma è evidente che siamo in un’altra dimensione rispetto alle campagne toscane o umbre o emiliane. Ci sentiamo lontani. Ogni località che tocchiamo ha le cicatrici del terremoto, che colpì in un vastissimo raggio, ed il segno della ricostruzione.
Paesino dopo paesino, ci accorgiamo di quanto quest’ultima possa essere a suo modo invadente e mestamente omologante: tutto è restaurato con la stessa fredda meccanica precisione industriale. Le pietre lavorate a mano dei secoli passati sono sostituite da quelle tagliate a macchina, gli angoli smussati dal tempo sono rifatti dritti e spigolosi, le finestrelle e le logge sono adesso squadrate e regolarissime, e tutto, ovunque, è rifinito, ma diremmo coperto, dallo stesso intonaco color sabbia-giallo-ocra, che vorrebbe dare una patina di anticata raffinatezza ed invece appiattisce in una similitudine un po’ triste ogni luogo.
Giungiamo a Santo Stefano di Sessanio, comune arroccato su un aspro colle. È peculiare per esser stato feudo della famiglia de’ Medici, i signori di Firenze, che nel suo territorio gestivano greggi di pecore dalle quali ricavare quelle lane che, lavorate in Toscana, fecero delle Arti che ne trattavano i commerci una volta trasformate in preziosi panneggi, le corporazioni più ricche d’Europa, e di Firenze la città più ricca del mondo, col suo fiorino d’oro, le sue banche, la sua corte mecenatesca e la sua produzione di meraviglie e geni in quantità e qualità mai più raggiunte altrove e in altre epoche.
Da quando in TV hanno raccontato questa storia del feudo mediceo, e mostrato lo stemma nobiliare ancor oggi presente sulla porta, Santo Stefano è diventata famosa. Anche qua il terremoto ha provocato danni e lutti, ed anche qua è arrivata la mano uniformante della ricostruzione, e la pioggia di contributi e mutui agevolati. Gru, impalcature, cantieri affollano le straduzze del borgo medievale, con la sua piccola impronta fiorentina che ha sofferto il sisma quanto ora soffre l’intonaco ocra. E tutto questo smuovere e investire ha portato ad una situazione paradossale: puntando tutto sul turismo, nel paese che conta 115 abitanti (“ma d’inverno rimaniamo in trenta”, ci dicono) risultano aperti 11 ristoranti, tutti dai nomi suggestivamente (ed un po’ grottescamente) altisonanti. Quasi un ristorante ogni dieci residenti.
Santo Stefano non è più un paesino povero e isolato, ma ormai è una giostra per visitatori, i quali, giunti fin qua in abbondanza, girano in tondo per le straduzze in greggi compatti che hanno sostituito quelli delle lanose pecore. Come la sua città madrina Firenze, anche Santo Stefano di Sessanio è diventata una disneyland per turisti. Risaliamo rapidamente in auto, e fuggiamo.
Per i mutevoli destini determinanti dalla visibilità offerta o negata dai media, anche Bussi sul Tirino, comune non molto distante, fu feudo dei Medici, ma nessuno lo sa; cosicché, il turismo di massa lo ignora, lasciandolo a visitatori più interessati ai suoi noti ristoranti e al suo fiume, il Tirino, talmente ricco d’acqua e così impetuoso che è capace di rinfrescare questo agosto atroce e offre pure l’esperienza di un’adrenalinica discesa in canoa.
Al vertice del paesino, in un silenzio irreale, si trova un castello (che fu, appunto, dei Medici). La piazzetta – abbacinante nella luce di un sole spietato – è un po’ il paradigma della ricostruzione post terremoto d’Abruzzo: opere così finemente restaurate che appaiono artificiali, e, accanto, ruderi forse mai più recuperabili. Case e palazzine nei dintorni sono perfette e vuote, più morte dei ruderi; il color ocra-sabbia smussa e appiattisce.
Ma il tratto distintivo di questo luogo è l’ impianto chimico nella valle sottostante. Brevissimo riassunto storico: fondato dalla franco-svizzera Elettrochimica Volta, alla quale subentrarono l’Elettrochimica Novarese, poi la Montecatini, la Montedison, la Ausimont, la Montefluos, tutte impegnate nella produzione di sostanza chimiche fortemente aggressive ed inquinanti soprattutto a base di cloro1. Nel 2002 ha acquisito le aree e continuato la produzione mediante alcuni impianti (cloro-soda) la società Solvay. Dal 1 agosto 2016 è diventata proprietaria e gestore degli impianti la Società Chimica Bussi. Nel momento di massimo splendore, e di grande occupazione, questo era chiamato l’Eldorado d’Abruzzo.
In questa enclave industriale, ogni cosa – i ritmi, il reddito, le consuetudini – erano diversissime dal contesto rurale e pastorale che la circondava: soprattutto nel villaggio operaio costruito negli anni ’20 nella visione utopica e paternalista delle città ideali legate alle grandi fabbriche dove ogni aspetto e momento della vita erano pre-stabilite ed amalgamate con i compiti ed i ruoli di manodopera, quadri e dirigenti; villaggio poi ampliato e perfezionato dalla Montedison negli anni ’60. E quindi case moderne, di aspetto e dimensioni adeguate alla mansione; teatro, cinema, sala da ballo; asilo, scuole, studentati; negozi, spacci, mense comuni; ospedali, farmacie, medici e una chiesa. E poi tutti i servizi all’avanguardia del progredire della modernità: l’acqua corrente, l’elettricità, i mezzi a motore, ed in seguito la radio, il telefono, la televisione… tutto in anticipo rispetto all’ambiente esterno, così vicino, così lontano.
Ma non solo oggetti e materialità: sotto un pergolato di una di quelle case ormai in rovina, parliamo con un esponente delle forze dell’ordine, che, loquace e gentile e memore delle vicende locali, ci racconta del Villaggio come di un mondo a sé, temuto e ammirato da chi non ne faceva parte, con quelle famiglie venute dal nord o dall’estero o abruzzesi ma ormai completamente assorbite da quello stile di vita fatto di ardite minigonne, adolescenti efebici in motorino, donne single, coppie separate, domeniche di musiche e luci colorate piuttosto che di parrocchie e processioni, ed il mito dei viaggi in metropoli lontane, e dell’amore libero… un misto di scandalo e di invidia, che tanto ha scosso la comunità, tanto la ha lacerata, quanto l’ha aperta, rinnovata, evoluta, ci dice.
Oggi il Villaggio cade in rovina, e non per colpa delle scosse telluriche, ma per mutate condizioni economiche e sociali. La strada che lo che per decenni è stata il collegamento diretto tra le“due Bussi” è oggi un viottolaccio fiancheggiato da pollai. Ma la chimica ha lasciato un altro segno: sotto immensi teloni verdi che dovrebbero contenerne polveri e veleni, giacciono, tra il viottolo ed il fiume, cloroformio, tetracloruro di carbonio, esacloroetano, tricloroetilene, triclorobenzeni, metalli pesanti… centinaia di migliaia di tonnellate di inquinanti e veleni che i teloni dovrebbero impedirne disperdersi in aria e nell’acqua.
È la discarica abusiva di rifiuti tossici più grande d’Europa. Il Corpo forestale dello Stato la scoprì solo nel 2007, anche se una enormità del genere era nota, ma non confessata, da tempo, a tutti. Da allora, in un rimpallo continuo di accuse e responsabilità tra le proprietà succedutesi negli anni e Comune, Regione, Stato, e tra mille difficoltà operative e finanziarie, nessuno ha saputo/potuto/voluto bonificare l’area, e questa sorta di mortifero ciclopico materassone verde è rimasto tre lustri lì, accanto al fiume.
Ora, grazie ai fondi del PNRR si sta provvedendo a svuotarlo e rimuoverlo, ma ritardi, intoppi, parzialità e polemiche politiche stanno ancora impedendo la rapida e completa soluzione del problema.
Ritorni ed addii
Giungiamo nel territorio peligno, il sulmonese. Da queste zone emigrarono in massa, nel passato anche recente, soprattutto verso il Connecticut, il Massachussets e il Rhode Island2. Impiegati nell’edilizia e nell’industria nautica, eccoli oggi, benestanti e americanizzati, di ritorno.
A Pratola Peligna si notano per l’abbigliamento più vivace, per i bambini alti e massicci che visitano la terra dei nonni con curiosità, per il loro fare incerto tra il ritrovare le radici e l’impossibilità di riconoscere un luogo che non esiste più come gli fu narrato, o come pensavano di ricordarlo. Pratola ha un chiesone che incombe, e strade incolori. Case con segni di una remota miseria si affacciano qua e là, a fianco di palazzotti di famiglie decadute. Ma qualcuno, appunto, in quelle case e in quei palazzotti, oggi ritorna.
Il fenomeno è molto evidente ad Introdacqua. Il centro storico è parzialmente in stato di abbandono. Ma tra le scalette di pietra ed i viottoli che si arrampicano in strette curve, si trova, ogni tanto, un cortile, una terrazza, un giardinetto con appese bandiere a stelle e
strisce; la relativa abitazione appena restaurata spicca tra gli intonaci cadenti, e gli americoabruzzesi salutano educati e orgogliosi del loro angolo restaurato, affacciandosi da balconcini e terrapieni dove hanno piazzato qualche sedia a sdraio, un tavolino di ferro battuto smaltato di bianco, un barbecue.
Nelle immediate vicinanze di Sulmona, un emigrato di ritorno ha costruito una villa da arricchito tutta esagerata: esagerata nelle dimensioni, nelle decorazioni architettoniche, nell’abbondanza di colonne e frontoni, nel cattivo gusto. Altre casone la attorniano, ma, seppur sgradevoli, sono un niente comparate allla massiccia bruttezza della periferia sulmonese che si trova al lato opposto della città: blocchi di condomini dalle dimensioni opprimenti senza grazia e senza armonia. La cesura col centro storico è netta e definitiva. Sulmona, la piccola capitale-che-non-ce-l’ha-fatta, è famosa, monumentale, turistica, ha i suoi simboli riconosciuti (Ovidio, i confetti…) ma trasuda una qualche malinconia.
Sarà per quelle montagne scure che la chiudono tutt’attorno, saranno il suo essere distante dai grandi centri, dal mare, da tutto, sarà quella certa incuria di vicoli e facciate, in ogni caso manca di vitalità. Ce lo dicono in molti, ed in particolare lo rappresenta un uomo che cortesemente ci fa visitare il palazzo comunale. Entriamo in empatia, e con noi si apre, si confida. Risponde con cognizione alle nostre curiosità, ci racconta delle difficoltà e delle insidie, anche della noia della provincia profonda, delle mancanze di prospettive, ci dice che qualche negozio di confetti in più non cambia poi molto nell’economia sociale di Sulmona. Lui ha un buon impiego fisso, una bella casa, una buona posizione, eppure … Sua figlia studia a Firenze, e quando sente che noi veniamo proprio da lì, ci dice che sogna di raggiungerla, di trasferirsi nel capoluogo toscano e comunque di “andare via, lontano da qua, altrove”. Ce lo dice deciso, fermo: “andare via”.
Per qualche americano che torna, quindi, c’è ancor oggi chi deve o vuol partire. E non sono casi isolati. I dati parlano chiaro: negli ultimi anni l’Abruzzo ha perso più di 56mila abitanti, registrando un -4,3% di residenti. Il terremoto non è la causa del fenomeno, ne ha solo acuito la rapidità. I motivi sono più profondi, e diffusi. Questa regione, come tutto il Sud Italia, soffre di un inarrestabile spopolamento, e la cura per questa emorragia non è stata ancora trovata; di sicuro la cura non consiste nel turismo. Soprattutto se non ben gestito.
Il mare e l’orizzonte
Ci dirigiamo verso il mare. Nell’interno abbiamo fallito la visita ad una serie di abbazie, siti archeologici, castelli e monumenti, perché la nostra buona volontà di fare le vacanze intelligenti si è infranta contro un incomprensibile mosaico di giorni ed orari di aperture/chiusure senza uno schema, senza un senso logico: quella chiesa è aperta tre ore di mattina martedì e due di pomeriggio il venerdì; quel palazzo è visitabile solo in alcuni week-end; al tale scavo si può accedere solo fino alle 14:00, ma solo se c’è il custode; un museo risulta chiuso per mancanza di personale, un altro è chiuso senza spiegazioni ed in entrambi i casi il sito internet relativo non avvertiva di ciò… Insomma, rimbalza rimbalza arriviamo alle affollate spiagge adriatiche.
Qua sì che il turismo è organizzato! Anzi, l’industria balneare, con i suoi ombrelloni fittifitti, i suoi prezzi da Versilia e i suoi suoni e frizzi e lazzi in stile riminese, domina su tutto il resto, persino sull’urbanistica, persino sul paesaggio. Da Pescara a Vasto è tutto uno stabilimento, e si fa fatica a trovare un tratto di spiaggia libera. Anche l’Abruzzo spinge dunque per entrare a pieno regime nell’ingranaggio dell’effimero e del voluttuario, ma… (e lo dicono due che vengono da quella Firenze così anelata dall’amico di Sulmona, e però così soffocata piegata e piagata dall’overtourism) Ma è vera gloria? È vera ricchezza?
Fu proprio un pescarese famoso, il più famoso di tutti, Gabriele D’Annunzio, a mettere in guardia l’Italia dal rischio (evidentemente già palpabile più di un secolo fa) di diventare “museo ed affittacamere dell’Europa spendereccia”.
Siamo ora sulla Costa dei Trabocchi, denominazione recente e un po’ da depliant di questo scampolo di Adriatico. I trabocchi (che in altre parti d’Italia chiamano trabucchi, e in quel di Pisa, con pragmatismo tutto toscano, retoni) sono quelle palafitte costiere munite di leve, bilancieri e paranchi che calano una rete-trappola in acqua cercando di tirar su qualche pesce. A quel che vediamo, in funzione non ne è rimasto nessuno, son stati trasformati tutti in ristorantini e localini da aperitivo. Scenografici, e un po’ cari. Fanno molto colore, e si stagliano sull’orizzonte altrimenti piatto della battigia.
Un gruppo di diciottenni gioca, si rincorre, flirta, tuffandosi dal molo. Sono tutti bellissimi; chissà quale sarà, il loro orizzonte? Emigreranno? Andranno a studiare al nord? Diventeranno gli affittacamere degli spenderecci? O Troveranno un ruolo sociale economico e professionale in questo Abruzzo in bilico tra benessere e insoddisfazione?
Saliamo a Chieti. Dopo averne attraversato la parte moderna, a valle, parte invero soffocante e disordinata, la città storica sull’altura è piena di cantieri. Il terremoto ha battuto anche qua, lontano sì dall’epicentro ma al punto che il municipio è stato dichiarato pericolante, e così il Comune con tutti i suoi organi i suoi uffici e le sue funzioni si trova provvisoriamente traslocato nel palazzo della Banca d’Italia. Quassù cogliamo tanti frammenti e immagini e dialoghi e impressioni: l’alta borghesia orgogliosamente elegante affolla il corso, i gruppi di camionisti e trasportatori che discutono in dialetto delle migliori stazioni di servizio autostradali, le tre dinamiche sorelle che gestiscono un bar con rara allegria, gli anziani con la coppola nera ben calzata, gli sbandati che farfugliano ubriachi nelle piazzette del centro, la coppia di ragazze che si scambia serenamente tenerezze alla fermata dei pullman.
Ci soffermiamo in una delle terrazze panoramiche e scrutiamo l’orizzonte, l’orizzonte che spazia sui monti coperti di boschi da un lato, sulla periferia irruenta che si confonde con quella di Pescara dall’altro, sul mare che si scorge da un altro ancora, una sorta un riassunto quindi di questa regione. E di questa regione tutta ci chiediamo quali siano gli orizzonti possibili, quali siano le prospettive di questa terra che non è “sud” e non è “centro”, strapiena di bellezze artistiche naturalistiche e culturali spesso sconosciute o sottovalutate, colma di una energia positiva che pare però arenarsi nel facile sfruttamento del contingente. Nel nostro viaggio, che ha avuto molte più tappe ed incontri di quelli narrati in questo scritto, abbiamo percepito enormi potenzialità tutte da sviluppare nelle città, nelle campagne, nei siti storici che nel loro insieme ci sono parsi un po’ trascurati, o meglio ancora, un po’ dimenticati.
L’Abruzzo sembra essere una regione marginale, non è la più ricca né la più povera d’Italia, non ha gli onori o le drammatiche esposizioni della cronaca, non ha né le spinte né le tensioni sociali che scuotono altre zone del Paese. Persino il sisma del 2009 e le sue permanenti conseguenze sono assenti dal dibattito pubblico: ne avete più sentito parlare? Pare che qua si replichi quella condizione dei “penultimi” così ben illustrata in un nostro precedente articolo. Ed è grave, perché l’attenzione va tenuta sveglia e attiva sempre, in un mondo che corre e accelera a ritmi impensabili fino a qualche anno fa. Affinché nessuno, affinché questa regione non rimanga indietro, non bastano i finanziamenti a pioggia per qualche B&B o la ricostruzione in giallo ocra di un palazzo qua ed uno là: ci vuole costante presenza delle istituzioni, perdurante volontà politica, ci vuole una progettualità lungimirante e coerente. Ma, e ripetiamo la domanda che ci siamo fatti all’Aquila, esiste un progetto?
- dal 1915 fino al 1945 qua l’Italia commissionò elementi esplosivi, incendiari e anche i terribili gas nervini, urticanti ed ustionanti. Ciò comportò, durante la II Guerra Mondiale, il divenire oggetto di pesanti bombardamenti alleati [↩]
- Chi scrive questo articolo li ha visti, gli abruzzesi di queste zone, nelle loro Little Italy di Hartford, New London, Providence, e ricorda di come vivevano in quell’ormai lontano 1988, nelle loro casette basse, con le iconiche madonne di gesso illuminate da una coroncina elettrica, le madri che parevano anziane senza esserlo e che parlavano un misto tra dialetto stretto e pessimo inglese, ed i figli nerboruti coi baffoni, i Guidos per gli sprezzanti americani wasps del New England [↩]