di Francesco Moroni
Le recenti polemiche sul caso dell’anarchico Alfredo Cospito, detenuto per reati di associazione terroristica, hanno riportato al centro del dibattito politico e giornalistico il cosiddetto “41-bis”, un particolare regime carcerario introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento penitenziario dalla Legge Gozzini n. 663 del 1986, passata alla storia per la fitta trama di benefici, misure premiali e alternative alla detenzione concedibili ai detenuti che si trovino in determinate condizioni al fine di valorizzare, anche nella fase esecutiva della sanzione penale, quella finalità rieducativa alla quale, per espresso disposto dell’articolo 27 della Costituzione, devono tendere le pene.
L’ironia della sorte vuole che questa normativa, all’epoca della sua approvazione oggetto degli strali dei fustigatori di un presunto buonismo lassista e perdonista, venga oggi bersagliata dalle parole contundenti scagliate dai censori di un asserito forcaiolismo vendicativo coltivato dallo Stato disumano. Perché? Per essere stata, a detta degli ultras di questa curva contrapposta, il primo germoglio di una malapianta incostituzionale, addirittura bollata come degradante “tortura di Stato”. Cerchiamo di fare chiarezza, senza scottarci col magma rovente delle parole in libertà, tanto più gravi quando provengono non da politicanti arruffapopolo in cerca di facili consensi, ma da ambienti giudiziari e accademici che dovrebbero restare a debita distanza dalle rozze semplificazioni e dagli acidi estremismi dell’agone politico-mediatico.
Da misura carceraria pura a rescissione dal clan
In origine l’art. 41-bis consisteva in un solo comma: “In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro della Giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto”. La norma perseguiva dunque una finalità preventiva rispetto a gravi situazioni di pericolo interne alle carceri.
In seguito al massacro di Capaci, per fronteggiare la strategia stragista di Cosa Nostra, è stato introdotto un secondo comma con il decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, poi convertito nella Legge 7 agosto 1992 n. 356: “Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, (…), il Ministro di grazia e giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, (…), l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza”. Si fa riferimento a reati di mafia e a detenuti (sia condannati in via definitiva sia in attesa di giudizio o in custodia cautelare) per i quali la legge permette una sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario.
Solo con la Legge n. 279 del 2002, dopo numerose proroghe, si è passati da una dimensione di provvisorietà al definitivo assetto di un istituto strutturalmente radicato nell’ordinamento penitenziario con la finalità preventiva di evitare che boss mafiosi, figure apicali di organizzazioni terroristiche e capi di associazioni a delinquere finalizzate al narcotraffico e alla tratta di esseri umani continuino ad esercitare dal carcere la loro influenza sui sodalizi criminali di appartenenza, progettando e ordinando altri gravi delitti. La sospensione dei normali benefici e delle ordinarie regole trattamentali presuppone che vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti fra il detenuto e l’associazione criminale, terroristica o eversiva di appartenenza e comporta le restrizioni necessarie per impedire i collegamenti con il clan. Dunque, la ratio della normativa è quella di interrompere ogni nesso fra il carcere e il mondo esterno, in considerazione della particolare pericolosità dei boss e dei loro sodali, pericolosità non meramente teorizzata in astratto, bensì accertata in concreto con estremo rigore valutativo stante l’attualità dei vincoli con i gruppi di appartenenza. A tale proposito, nella sentenza n. 273 del 2001 la Corte Costituzionale ha contribuito a chiarire che la collaborazione con la giustizia assume la valenza di criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata, perché il collaboratore, marchiato come “infame” nella logica ritorsiva del clan, dimostra con il proprio contributo di recidere definitivamente i legami con la sua cosca.
Come ha puntualmente osservato la professoressa Angela Della Bella, autrice di una importante monografia sul tema intitolata Il “carcere duro” tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali, la disciplina risponde “alla necessità di impermeabilizzare il detenuto per gravi fatti di mafia all’interno dell’istituto detentivo, in una logica antitetica a quella propria dell’ordinamento penitenziario”. Mentre quest’ultimo “è teso a realizzare una progressiva risocializzazione del detenuto, il regime detentivo speciale del 41-bis mira ad impedire per quanto possibile i contatti del detenuto con gli altri detenuti e con l’esterno. E questo obiettivo si realizza di fatto isolandolo all’interno del carcere”.
Severo, ma giusto
I profili applicativi sono molto duri. Il sottoposto al 41-bis è collocato in una cella singola, ha diritto a due ore d’aria quotidiane durante le quali può incontrare un numero assai limitato di detenuti, è costantemente sorvegliato da un reparto speciale della Polizia penitenziaria, non può partecipare alle rappresentanze di detenuti ed internati e non ha accesso agli spazi comuni del carcere. Il colloquio è uno solo al mese di un’ora, contro i sei previsti per i detenuti comuni, può avvenire soltanto con i familiari e i conviventi dietro un vetro divisorio a tutt’altezza e viene ascoltato e videoregistrato. Il colloquio fisico può essere sostituito, previa autorizzazione del direttore dell’istituto, da una telefonata mensile di dieci minuti, registrata. La posta in entrata e uscita è severamente controllata e anche somme di denaro, beni e oggetti ricevuti dall’esterno sono sottoposti a restrizioni. Ad esempio, è vietato inviare e ricevere libri e riviste dall’esterno, in quanto potenziali veicoli di scambio di messaggi cifrati, come avallato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 122 del 2017, mentre resta possibile acquistare attraverso i canali autorizzati i libri da leggere o da usare per motivi di studio.
Le garanzie sono assicurate
In virtù di alcuni interventi della Consulta nel 2013 e 2022, non soggiacciono più a limitazioni in ordine di numero e durata i colloqui con gli avvocati ed è stato cassato il visto di censura della corrispondenza fra i detenuti al 41-bis e i loro difensori. Il diritto di difesa di cui all’art. 24 della Carta fondamentale è stato ritenuto principio supremo dell’ordinamento costituzionale che implica il diritto incomprimibile di conferire con il proprio legale. Ci sono stati casi in cui gli avvocati si sono prestati a fare da canale di trasmissione di comunicazioni e messaggi illeciti, ma – secondo il giudice delle leggi – occorre presumere la correttezza e assicurare i contatti senza i limiti e i filtri in vigore per i familiari, fermo restando che le condotte di favoreggiamento vanno perseguite senza sconti anche per i membri dell’ordine forense.
Il provvedimento applicativo del regime carcerario speciale “è adottato con decreto motivato del Ministro della giustizia, anche su richiesta del Ministro dell’interno, sentito l’ufficio del pubblico ministero che procede alle indagini preliminari ovvero quello presso il giudice procedente e acquisita ogni altra necessaria informazione presso la Direzione nazionale antimafia, gli organi di Polizia centrali e quelli specializzati nell’azione di contrasto della criminalità organizzata, terroristica o eversiva”.
La sospensione dei benefici ha “durata massima pari a quattro anni ed è prorogabile nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni. La proroga è disposta quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno, tenuto conto anche del profilo criminale e della posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, della perdurante operatività del sodalizio criminale, della sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, degli esiti del trattamento penitenziario e del tenore di vita dei familiari del sottoposto. Il mero decorso del tempo non costituisce, di per sé, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa”.
I provvedimenti di applicazione e di proroga del regime detentivo speciale sono impugnabili dinanzi al Tribunale di sorveglianza di Roma, la cui ordinanza è ricorribile in Cassazione per violazione di legge.
È costituzionale; lo dice la Corte costituzionale!
Il 41-bis si colloca in quel delicato segmento ordinamentale in cui si intrecciano due contrapposte esigenze di rango costituzionale che vanno contemperate con equilibrio: da una parte quella dello Stato di assicurare ai cittadini e alle istituzioni la tutela dalle organizzazioni criminali e dall’altra quella di garantire al detenuto un trattamento sanzionatorio non lesivo dei diritti fondamentali della persona. Lungi dagli slogan tranchant e dalle brutali semplificazioni, la Consulta – che in generale ha sempre convalidato la compatibilità costituzionale dell’istituto in esame, riconoscendone l’indispensabilità nel contrasto del fenomeno mafioso – ha apportato via via correttivi parziali per rimuovere alcuni aspetti inutilmente afflittivi e mantenere solamente quelle restrizioni funzionali ad evitare i collegamenti del detenuto con l’esterno. In questo senso, nel 2018 è stato dichiarato illegittimo il divieto per il detenuto al 41-bis di cuocere cibi in cella, trattandosi di un impedimento privo di qualsiasi reale funzione preventiva.
Chi, in nome di un malinteso garantismo umanitarista e di una generica furia anticarceraria, definisce il 41-bis tout court incostituzionale e illiberale sia di per sé che per le sue modalità attuative, parlando di “tortura di Stato” da eliminare per tutti, da Cospito a Messina Denaro, espunge malamente dal proprio orizzonte valutativo ineludibili dati di realtà e ignora l’essenziale e indiscutibile funzione preventiva di uno strumento che è riuscito ad impedire molti delitti ed è stato un deterrente rispetto allo strapotere dei boss. Come ricorda il magistrato Sebastiano Ardita nel suo libro “Al di sopra della legge. Come la mafia comanda dal carcere”: “Il carcere diventava duro per impedire che da lì partissero gli ordini dei capimafia, non certo perché si volesse far soffrire apposta qualcuno”. Quanto alle lamentate violazioni degli articoli 13 e 27 della Costituzione, occorre rammentare a certi giuristi che la finalità rieducativa della pena presuppone pur sempre un atteggiamento di adesione del condannato ad un progetto di recupero, atteggiamento non ravvisabile nel mafioso o terrorista che non collabora con la giustizia e, da irriducibile, mantiene collegamenti attuali con la consorteria criminale di appartenenza.
Si aggiunga che questo regime peculiare non prevede alcuna minore assistenza sanitaria. Da Riina a Provenzano, da Cospito a Messina Denaro, lo Stato ha sempre garantito cure adeguate ai detenuti sottoposti al 41-bis, attraverso la collocazione in strutture penitenziarie perfettamente attrezzate dal punto di vista medico, ciò che rende costituzionalmente legittima la prosecuzione della detenzione anche nel regime speciale.
Uno strumento utile, anzi, indispensabile
C’è chi, poi, si duole della stabilizzazione del 41-bis, nato come misura provvisoria antimafia e ora, a suo dire, incostituzionalmente degradato a superpena inutilmente vessatoria a carico di un numero pletorico di detenuti. Stando alle statistiche aggiornate a dicembre 2022, il 41-bis interessa 748 detenuti cui si aggiunge Matteo Messina Denaro ristretto da gennaio 2023 nel carcere aquilano. Non sembra che dal numero debbano desumersi conseguenze catastrofiche, se si considerano la pervasività e le ramificazioni delle organizzazioni mafiose e terroristiche che negli ultimi decenni hanno conosciuto un iter evolutivo che le ha portate ad essere poteri criminali “diffusi”, distaccandosi dall’assetto rigidamente verticistico e gerarchico di un tempo, con una ristretta “cupola” e un esercito di gregari ed esecutori. Che fare? Poiché ci sono ben 700 mafiosi e terroristi al 41-bis, lo aboliamo o lo svuotiamo dall’interno perché sarebbero “troppi” e dimostrerebbero il fallimento della sua ratio preventiva? Chiediamoci piuttosto come sarebbe questo Paese senza.
Si possono condividere i rilievi tecnici di quella dottrina che, nel confermare la legittimità e utilità di questo strumento e la perdurante validità della sua funzione preventiva, mette in guardia contro i pericoli di snaturamento a istituto più tipicamente punitivo, ma vanno rigettate le strumentalizzazioni polemiche che fanno slittare la questione su un piano ideologico: estremismi perniciosi generati dai fautori di una preconcetta insofferenza verso l’azione repressiva dello Stato e la logica del “doppio binario” che non può essere messa in discussione nell’azione di contrasto della criminalità mafiosa e terroristica.
(Francesco Moroni è avvocato, autore di libri, collaboratore di riviste specializzate)