di Gabriele Pazzaglia e Marco Ottanelli
Che la forma laica delle istituzioni, in Italia, sia una maschera che copre il volto di fatto confessionale dello Stato è una verità talmente palese che si faticherebbe a trovare ingenui disposti a negarla.
E il clima di venerazione che il sistema politico-mediatico ha messo in piedi, anzi, ci sia concesso, in ginocchio, nei giorni successivi alla scomparsa del capo della Chiesa cattolica, ne è l’ennesima conferma.
Dopo l’inopportuna sospensione delle attività sportive il giorno della morte del Papa e lo stravolgimento dei palinsesti televisivi in quelli successivi – che già in tempi normali non offrono molto che sia degno di essere visto – la politica, i politici, hanno fatto a gara a prosternarsi, in spregio del ruolo affidato loro, di rappresentanti della Nazione.
E non è bastata la commemorazione con il Parlamento a camere riunite, fuori dai casi previsti dalla Costituzione, che sono tassativi (c’è scritto pure sul sito del Senato!). Il Governo, se ne è parlato, ha dichiarato l’inedito lutto di cinque giorni. E ha preteso che le manifestazioni previste – tra le quali, guarda caso, c’era la Festa della Liberazione – si svolgessero “in modo sobrio e consono alla circostanza”. Questo (come chiamarlo, invito, raccomandazione, auspicio?) non è stato messo nero su bianco in un atto pubblico avente valore legale. Se ne trova traccia nel comunicato stampa all’esito del Consiglio dei Ministri e in una circolare firmata dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Mantovano, ad uso interno degli uffici pubblici, che non si trova sul sito del Governo e che sono riuscito a reperire, quasi per caso, su qualche sito istituzionale. Sembra che, consci dell’assurdità della pretesa, i nostri ministri l’abbiano buttata là, senza volontà di farla rispettare, ma solo per intorbidire le acque.
C’è un aspetto, di cui però non si è parlato: con la stessa circolare il Governo “dispone”, usa proprio questo termine, un minuto di silenzio “in tutti gli uffici pubblici e nelle scuole di ogni ordine e grado, ove aperte” il giorno del funerale, o “nel primo giorno di apertura”, quindi lunedì 28. Ma se un funzionario pubblico non rispetta la “disposizione”, che gli fanno? Anche in questo caso non ce lo vediamo il dirigente di turno, per quanto fanatico possa essere, avviare un procedimento disciplinare. E per la violazione di quale norma? Ma ancora emerge la volontà di genuflettersi e far genuflettere. Ancor più grave è la pretesa, se si pensa che è rivolta ai funzionari pubblici, l’ossatura della Repubblica laica, e agli studenti che, nel luogo che dovrebbe essere deputato all’apprendimento del metodo scientifico per non avere paura del mondo, siano chiamati a rendere omaggio al sovrano assoluto di una teocrazia che fantastica di angeli e demoni, nella perdurante paura dei fantasmi.
La laicità è una forma mentis, una postura, di dignità e onestà intellettuale, che dovrebbe permeare tutta la società
Mentre scriviamo è appena terminato il Lutto Nazionale indetto per la morte del Papa, ma nelle redazioni giornalistiche televisive non hanno ancora smaltito le faccine tristi e i toni sommessi di inviati e mezzibusti dei TG che vedremo e ascolteremo, dunque, ancora per giorni e giorni, esibirsi in contrizioni e mestizie che manco all’accademia nazionale d’arte drammatica. Se frignare a comando è, appunto, uno degli esercizi più difficili per un attore, evidentemente frignare prima/senza che nessuno/a prescindere che il tuo dirigente te lo chieda deve essere facilissimo, a giudicare dalla immediata ed uniforme fisiognomica televisiva.
Della carta stampata e dei giornali on line nemmen ne accenniamo, visto che la prima non la compriamo né guardiamo, mente i secondi, che ci hanno alluvionato di immagini, interviste, resoconti e cronache tutte uguali, bhe, nonostante il profluvio, domani scompariranno per sempre, inutile come il corrispondente dai quartieri poveri di Buenos Aires. Le prefiche clericali si assommano ai noti presenzialisti da dibattito in studio, i quali, messe da parte per un momento le loro risolutive opinioni su ammazzamenti criminali, prove del dna e utilità o meno del greendeal, non rinunciano certo a qualche uscita altrettanto necessaria su Francesco, o sui conclave, o sul Vaticano, o su un Papa a caso purché possa portar acqua a qualche mulino, non necessariamente il proprio personale… E su Francesco, unanimi: “quanto era buono!” Ma chi l’ha detto, ma dove è scritto, ma chi ha mai stabilito che un Papa debba essere buono?
Facendo un rapido excursus storico-speculativo, possiamo indicare come tale concezione delle qualità pontificali, che a noi contemporanei sembra essere da sempre esistita, si sia formata ed in seguito affermata non prima degli anni 50 del secolo scorso, con Giovanni XXIII, detto, definito, e senza casualità, non più magno o santo come qualche Innocenzo, Gregorio o Leone, ma buono. Roncalli, il Papa buono, precedente ormai irrinunciabile per i vescovi di Roma. Perché prima, per 1900 anni e più, i papi mica erano buoni. Non erano tenuti ad esserlo, non dovevano, neppure potevano essere buoni. Al contrario! Essi scuoiavano e squartavano, torturavano e bruciavano vivi, reprimevano e perseguitavano, opprimevano e riducevano in schiavitù, piegavano, torcevano, stritolavano i corpi e le menti di uomini, donne, fanciulli in quanto eretici, pauperisti, infedeli, mori o selvaggi. I Papi guidavano armate ed eserciti, conducevano assedi e saccheggi, dichiaravano e sostenevano guerre (l’ultima, peraltro contro l’Italia, nel 1870), mantenevano compagnie mercenarie di ventura (cos’altro è la Guardia Svizzera). Nell’intransigenza e nella severità si qualificava la santità di un Papa, non nella sua imbelle bontà. Il Papa è simbolo, strumento, incarnazione del Potere, e lo deve esercitare ad ogni costo.
Cosa vuol dire “laicità”, oggi in Italia.
Vanamente cercheremmo la parola “laicità” nella Costituzione della Repubblica o nelle sue leggi, presenti e passate, che è assente anche nei trattati europei.
Solo la Francia, tra gli Stati del vecchio continente, afferma nella propria Costituzione, già all’art. 1, che essa è “una repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale”. Altre Costituzioni, come quelle di Germania o Spagna, stabiliscono che non può esservi una religione di Stato. Così come negli Stati Uniti. In altre nazioni dell’occidente è comunque affermato il principio di separazione tra lo Stato e le chiese, con diverse gradazioni e sfumature.
In Italia, il principio di laicità, è presente, come ha chiarito la Corte costituzionale, che ha tuttavia detto che esso non è neutralità dello Stato, indifferenza totale o quasi al fenomeno religioso, relegato ad aspetto privato, ma la garanzia dello Stato stessa per la salvaguardia della libertà di religione. E la differenza è grande.
Una premessa storica è d’obbligo per capire. La penisola ha sempre patito l’ingombrante presenza dello Stato della Chiesa, che per secoli (dal suo nascere e fino alla cancellazione del potere temporale, anzi, pure un po’ oltre) ha lavorato contro l’unificazione italiana. Con la fondazione dello Stato italiano, nel 1861, lo Statuto del Regno di Sardegna del 1848 è diventato sua legge fondamentale, legge che, all’art. 1, stabiliva, secondo i vecchi cascami dell’Ancien régime, che “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”. In principio il neonato Regno intraprese una pesante politica di laicizzazione cui il Papa impotente e furioso assisteva chiuso in Vaticano: il matrimonio civile quale unico avente effetti legali, controlli amministrativi sulla gestione patrimoniale degli istituti religiosi, espropriazione di proprietà ecclesiastiche, istruzione laica, esclusione dei preti dall’amministrazione delle Opere pie, l’abolizione delle decime…
La riscossa clericale trovò nuova linfa con il fascismo che ha cancellato tanti dei progressi realizzati. Pur di accaparrarsi la legittimazione della Chiesa, Mussolini – con i Patti lateranensi del 1929 – ha svenduto, anzi regalato proprio, un pezzo della nostra capitale al Papa, che ha potuto da quel momento vantare la sovranità sul quel territorio, per quanto piccolo, divenuto la Città del Vaticano; trattato che simbolicamente prevedeva che “L’Italia, riconosce e riafferma, il principio consacrato nell’art. 1 dello Statuto del Regno 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato”. Da ciò le gravi conseguenze in termini di ingerenze della Chiesa nella società, anche grazie all’annesso Concordato.
Caduto il fascismo, la Democrazia Cristiana nell’Assemblea costituente, è riuscita astutamente a mantenere in vita i Patti, anche grazie alla collaborazione del Partito comunista che ha votato la formula che poi è diventata l’art. 7 della nostra Costituzione1:
Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi.
Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
Poche parole, ma dalle grandi conseguenze concrete: il richiamo dei Patti ha portato la Corte costituzionale ad ammettere che il concordato possa addirittura derogare la Costituzione, e che trovi come unico limite un nucleo di diritti e valori che la stessa Corte considera “principi supremi” della nostra Repubblica. Privilegio che si applica anche alla revisione dei Patti avvenuta nel 1984, che almeno elimina alcune delle norme palesemente contrarie alla Costituzione, tra le quali proprio il richiamo al cattolicesimo come religione di Stato che da quel momento almeno possiamo considerare definitivamente superato.
Tra questi “principi supremi” c’è, appunto, quello di laicità. Ed ecco il nodo del problema: come abbiamo anticipato, esso, secondo la Corte2, “implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”.
Questa concezione lascia aperta, anzi spalancata, la porta a quel confessionalismo di fatto che è sotto i nostri occhi. Il riferimento alla libertà di religione non è strumento della neutralità dello Stato e dei suoi funzionari, ma diventa paradossalmente il grimaldello per mantenere privilegi e prerogative godute dal cattolicesimo in quanto religione predominante. Vediamo come.
Il costo della Chiesa cattolica sul contribuente italiano.
Senza dubbio il finanziamento della Chiesa è la prima riforma che dovrebbe essere discussa secondo una seria concezione del principio di laicità, per eliminare il famigerato 8×1000.
Chi lo difende di solito afferma che, anche se è una quota dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, – l’IRPEF – si tratta pur sempre di una donazione volontaria.
Ma c’è un ma.
La legge stabilisce che “le destinazioni” della quota dell’8×1000 “vengono stabilite sulla base delle scelte espresse dai contribuenti in sede di dichiarazione annuale dei redditi”. Quindi, in realtà, il contribuente che sceglie (Stato, Chiesa cattolica, valdese, luterana, Comunità ebraiche, etc…) non destina il suo 8×1000, ma esprime una preferenza per la distribuzione del monte complessivo dell’imposta. E fosse solo questo, il male sarebbe che un gruppo sociale si appropria di risorse collettive per sostentare il proprio clero, usando la forza dello Stato per riscuotere i relativi denari. Con buona pace del principio di eguaglianza dato che i credenti – cioè, i cattolici e quelli delle altre religioni che hanno stipulato un’Intesa con lo Stato – usano quella quota per i propri fini, mentre i non credenti pagano per la spesa di cui godono tutti, credenti e non3.
E c’è di peggio, una vera e propria trappola luciferina: il meccanismo delle preferenze non espresse. Qualcuno animato di logica e senso dell’ovvio potrebbe pensare che se il contribuente non dice nulla, le sue tassi rimangano allo Stato. E invece no: l’articolo citato continua così: “in caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse”. E circa il 60% dei contribuenti non si esprime4 :
Quindi la Chiesa, grazie alla fidelizzazione di una solida minoranza e alla massiccia campagna pubblicitaria annuale, riesce ad accaparrarsi due terzi del finanziamento totale, il doppio di quanto le spetterebbe sulla base al consenso effettivo.
I dati ufficiali sono impietosi: nel 2021 con poco meno del 28% delle preferente totali, la Chiesa cattolica ha ottenuto quasi il 70% del finanziamento. Analogamente nel 2022, con appena il 27% delle preferenze ricevute ha ottenuto il 67% dell’8×1000, come mostrato in questi grafici:
E sono soldi. Tanti soldi! Nel 2020, l’anno più recente di cui sono disponibili gli importi, la Chiesa cattolica ha ricevuto il 28,67% delle preferenze totali e, in base a ciò avrebbe avuto diritto a 409 milioni di euro. Ma grazie a quelle non espresse ha ottenuto altri 581 milioni! Solamente cancellando la riga della legge sul riparto delle preferenze non espresse risparmieremmo mezzo miliardo di euro all’anno. Si sono alternati molti governi, tutte le forze politiche. Nessuno ha fatto niente.
Come può una democrazia funzionare se i portatori di un’ideologia, di una fede che per definizione ritiene da avere la verità assoluta, hanno a disposizione, ogni anno, un miliardo di euro – di cui la metà a loro non espressamente destinati – con i quali possono mantenere una rete sociale e di propaganda con la quale condizionare l’opinione pubblica? Queste risorse devono essere lasciate nelle tasche dei cittadini affinché essi, con i propri legittimi interessi, decidano chi e come finanziare. È una questione di genuinità della democrazia, nella quale bisogna concorrere ad armi pari, e di garanzia della libertà.
Spendiamo due parole sui politici che più di altri hanno voluto questo sistema. La decisione del Presidente del Consiglio Bettino Craxi è ricordata così dal suo capo di segreteria Gennaro Acquaviva, che nel 1984 si trovò al suo cospetto insieme al Presidente della commissione di studio italo-vaticana per sottoporgli la questione centrale della riforma del concordato, “la più spinosa: quale forma e ampiezza garantire al sistema di finanziamento della Chiesa”. Mentre il collega spiegava le varie alternative – racconta Acquaviva – “Craxi lo interrompe bruscamente, già alla terza frase; ci guarda bene in faccia e se ne esce con una linea chiarissima: «non affamate i preti!»”5. Alla faccia del socialismo!
Alla stessa commissione partecipò un tecnico che negli anni ’80, era un giovane rampante, poi divenuto noto alle cronache politiche per la sua diretta partecipazione al Governo: Giulio Tremonti. E dopo tanti anni se ne dice pure orgoglioso…
E non è solo l’8×1000. Potremmo continuare con un lungo elenco fatto di esenzioni, anche dall’ICI/IMU, contributi per la costruzione di edifici di culto e oratori, cappellani militari, nella polizia, nelle carceri etc… Per approfondire il consigliamo il sito https://www.icostidellachiesa.it/leggi-statali-a-favore-della-chiesa/. Visione sconsigliata ad un pubblico sensibile…alle proprie tasse!
Istruzione e crocifisso. A scuola si fa catechismo.
L’altra grande contraddizione con il principio di laicità è l’insegnamento della religione nella scuola pubblica. Non si tratta di studio del fenomeno religioso, cioè la sua storia e il modo in cui si è manifestato nelle varie pari del mondo, ma proprio e solo l’insegnamento della religione cattolica. L’art. 9 dell’Accordo del 1984 che ha modificato il Concordato del 1929, parla chiaro: La Repubblica “tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare […], l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche” diverse dall’Università. E il Protocollo annesso precisa che l’insegnamento della religione avverrà “in conformità alla dottrina della Chiesa […] da insegnanti che siano riconosciuti idonei dall’autorità ecclesiastica, nominati d’intesa con essa”. Gli insegnanti, pagati con i soldi di tutti devono avere il benestare del vescovo.
E il programma – recita sempre l’Accordo – sarà deciso in “intesa” con la Conferenza Episcopale italiana. Un catechismo mascherato che dovrebbe essere svolto in parrocchia, pagato dagli interessati. E al quale invece sono dedicate due ore a settimana alle scuole primarie, una alle secondarie. Una situazione un po’ diversa dalla scuola internet, impresa e inglese prospettata da un certo politico qualche anno fa.
In questo condizionamento esercitato dalla Chiesa tramite i suoi prescelti, si ergono pure voci vittimistiche che descrivono la scuola come un luogo sotto assedio della inesistente teoria del gender – oramai uno spauracchio per dare contro a qualunque dibattito libero, dalla sessualità, all’aborto, fino alla libertà e eguaglianza della donna – vaneggiando poi di cancel culture e di dittatura del pensiero unico, quando invece è proprio alla trasmissione della dottrina cattolica che è dedicato uno spazio istituzionalizzato.
E la scarsa forza del principio di laicità – per quanto supremo esso sia – emerge anche nel caso del crocifisso nelle aule scolastiche: la sua presenza fu oggetto di un’aspra battaglia tra il 2009 e il 2011, quando una cittadina italiana si rivolse alla Corte europea dei diritti dell’Uomo per contestare tale esposizione. La battaglia fu persa, perché la Corte l’ha considerata in sostanza materia interna ai singoli Stati6.
La questione è tornata davanti alla Corte di cassazione, tramite un altro caso, di un professore che era stato sanzionato per aver tolto il crocifisso.
La Corte, a sezioni unite, con la sentenza n. 24414 del 2021, ha stabilito in primo luogo che l’obbligo di esporre il crocifisso “non è compatibile con il principio supremo di laicità dello Stato”. Per il fascismo la “religione cattolica costituiva un fattore di unità della nazione … ma nella democrazia costituzionale l’identificazione dello Stato con una religione non è più consentita.
L’imposizione del simbolo, oltre a comportare “una identificazione tra Stato e contenuti di fede”, confligge con “l’imparzialità e l’equidistanza che devono essere mantenute dalle pubbliche istituzioni nei confronti di tutte le religioni”.
Ma proprio per la debolezza della nostra laicità, secondo la Corte, il crocifisso non è vietato. Esso è “facoltativo”: può essere esposto se la richiesta viene dagli stessi studenti “affiancando al crocifisso, in caso di richiesta, gli altri simboli delle fedi religiose presenti all’interno della stessa comunità scolastica e ricercando un ragionevole accomodamento che consenta di favorire la convivenza delle pluralità”.
Infatti, spiega la Corte, “la laicità italiana non è “neutralizzante” … non persegue un obiettivo di tendenziale e progressiva irrilevanza del sentire religioso, destinato a rimanere nella intimità della coscienza dell’individuo”. Ancora, “la nostra è una laicità aperta alle diverse identità che si affacciano in una società in cui hanno da convivere fedi, religioni, culture diverse”
E quindi, se alcuni studenti chiedono di esporre il crocifisso, sarà compito del dirigente scolastico valutare l’affissione, accanto ad esso, “di un simbolo o di una frase capace di testimoniare l’appartenenza al patrimonio della nostra società anche della cultura laica”, oppure, collocarlo in un punto diverso, o addirittura toglierlo durante la lezione di un insegnante dissenziente.
Buoni propositi, certo. Ma così si rinuncia ad una regola chiara, uguale per tutti, sotto l’autorevolezza della Repubblica, e si ammette che minoranze rumorose marchino il territorio: consentendo a ognuno di mettere la propria bandierina, il proprio simbolino, non si fa laicità, non si apre la scuola a tutti davvero, ma si crea un multiconfessionalismo, che per la laicità vera, e quindi per l’eguaglianza, sono la prospettiva peggiore.
In conclusione, la morte di Francesco è stato l’ennesimo pretesto per la nostra classe dirigente tutta di mettere in luce la propria sudditanza culturale rispetto alla Chiesa, per cercare in essa legittimazione che dovrebbe invece cercare nel consenso popolare. La stessa sudditanza che condiziona norme e comportamenti pubblici e che allontana, in un circolo vizioso, la politica dal Paese reale.
- per una autorevole e laica ricostruzione del voto consigliamo l’articolo di Piero Calamandrei, Art. 7: storia quasi segreta di una discussione e di un voto apparso ne «Il Ponte», anno III, n. 4, aprile 1947 [↩]
- sentenza n. 203 del 1989 [↩]
- si tratta della legge n. 222 del 1985, art. 47 [↩]
- come dimostrano questi dati tratti dall’ultima relazione del Governo; qui i dati degli ultimi 5 anni [↩]
- Dal libro “La Grande Riforma del Concordato”, a cura di Gennaro Acquaviva, p. 27 [↩]
- Tecnicamente ha riconosciuto agli Stati un “ampio margine di apprezzamento” cioè, il diritto insindacabile, di valutare la situazione contestata. Di quel periodo resta nella memoria il pensiero espresso dall’allora Ministro La Russa – “Comunque non lo leveremo il crocefisso! Possono morire! Il crocefisso resterà in tutte le aule della scuola – espresso con eleganza e cristiana pacatezza [↩]