di Gabriele Pazzaglia
Le polemiche che hanno avviato questa XIX legislatura (la norma anti-rave, i nuovi sbarchi, il caro-bollette) hanno fatto passare in secondo piano un aspetto molto importante della nuova composizione del Parlamento: la consistenza della maggioranza parlamentare è il risultato, ancora una volta, di una distorsione della volontà popolare, a causa delle legge elettorale.
Come abbiamo già messo in luce all’indomani dei risultati definitivi, la vittoria della coalizione di destra, e in essa di Fratelli d’Italia, è stata netta, ma non travolgente: la coalizione, prendendo il 44% dei voti si è affermata quale schieramento di maggioranza relativa (cioè la maggiore minoranza). Ma la sua rappresentanza parlamentare è enormemente maggiore dato che il meccanismo elettorale l’ha trasformata in una schiacciante maggioranza, con quasi il 60% dei seggi! E al suo interno la Lega, ha una rappresentanza doppia rispetto ai voti ottenuti: mentre questi si sono dimezzati rispetto al 2018, la percentuale di seggi è paradossalmente invariata.
In questa tabella riportiamo i dati della Camera partito per partito:
I dati sono sovrapponibili a quelli del Senato in cui l’unica differenza sostanziale è che il gruppo di Fratelli d’Italia arriva al 30,5% e quello della Lega è sovrarapprestenato “solo” al 14%.
Questa enorme distorsione è dovuta alla legge elettorale Rosato1 in base alla quale il riparto dei seggi, tolti gli 8 eletti all’estero, avviene con meccanismo proporzionale, per 245 seggi (su 400), e con il sistema dei collegi per i restanti 147, che sono il 36,5% dei seggi. In ogni collegio il seggio viene assegnato al candidato più votato, anche se non ha raggiunto la maggioranza assoluta, per cui una vittoria, anche di misura, di un gran numero di seggi, permette di trasformare un vantaggio minimo, in termini di voti, in una supermaggioranza parlamentare. E proprio di questo effetto moltiplicatore ha beneficiato la destra che altrimenti, non sarebbe stata in grado di formare un governo, essendo ben lontana dalla soglia del 51%, appena sufficiente a dare stabilità ad un esecutivo.
Il centrodestra, infatti, ha vinto l’80%(!) dei collegi, lasciando pochi spazi al PD e al M5S, che hanno prevalso, rispettivamente, solo nell’8 e nel 7% dei casi. Una vera e propria onda blu, come si vede da questa cartina.
Come può essere opportuno, benefico, ma soprattutto sostenibile, per la nostra democrazia che ci siano 15 punti percentuali di differenza tra il consenso ricevuto e la rappresentanza del voto? Un sistema così non fa altro che artefare la volontà popolare, tramite formule matematiche che operano in base alla distribuzione del voto, così trasformando un dissenso vero in un consenso fittizio. Può l’Autorità esserlo veramente senza autorevolezza? Possiamo dirci uno stato veramente democratico se le leggi che i cittadini devono rispettare sono prodotte da una maggioranza che rappresenta una minoranza di elettori?
Il dibattito pubblico e le forze politiche hanno scelto, da anni, di sacrificare ogni istanza di corretta rappresentanza, sull’altare della cd. governabilità. Noi siamo da sempre, e restiamo, contrari a questa faciloneria e pensiamo che distorcendo la volontà popolare non si realizzano governi più stabili, per i quali servono semmai uomini migliori, ma si ingenera solo la sensazione nei cittadini di essere irrilevanti rispetto alle decisioni più importanti.
Ma oltre al merito c’è un problema di rispetto alla Costituzione. Già due leggi elettorali sono cadute, annullate perché ritenute incompatibili con la Costituzione, la Legge Calderoli (famosa per il premio di maggioranza e le liste bloccate) e la Legge Renzi (che prevedeva il ballottaggio e le liste semi-bloccate).
Nel giudizio sulla prima di esse, la Calderoli, la Corte ha contestato che il premo di maggioranza producesse “una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica, [il Parlamento] che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare, secondo l’art. 1, secondo comma, Cost.”. Il Parlamento, infatti, non è solo il luogo dove si fanno le leggi e si vota la fiducia al Governo ma è l’organo che svolge anche importanti funzioni di garanzia indirette: elegge il Presidente della Repubblica, un terzo del Consiglio superiore della Magistratura, un terzo della Corte costituzionale. I cui quorum di elezione (rispettivamente la maggioranza assoluta, i tre quinti dei componenti e i tre quinti dei votanti), sono più alti della semplice maggioranza dei presenti, necessaria per approvare una legge, e sono tarati proprio in funzione di una rappresentanza tendenzialmente proporzionale. Se una maggioranza può aggirare queste soglie, e di fatto “prendersi” gli organi di garanzia, questi rischiano di non essere più garanzia di niente, se non della maggioranza stessa.
La Corte ha affermato che, anche se in generale sono ammissibili norme che favoriscano la stabilità del Governo, la concessione del premo di maggioranza della Legge Calderoli “non è proporzionata rispetto all’obiettivo perseguito, posto che determina una compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente.”
La differenza tra il voto e il Parlamento in quel caso era eccessiva perché “l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima” causa “l’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.)”.
A differenza della Calderoli, la legge Rosato, non ha un problema di soglia minima perché funziona con il meccanismo dei collegi, come abbiamo detto. Ma il problema, paradossalmente permane per via dell’assenza di una soglia massima, che invece la tanto giustamente vituperata legge Calderoli per lo meno aveva. Perché è vero che il premo di maggioranza veniva elargito anche alla più mediocre maggioranza relativa, ma è anche vero che essa otteneva al massimo il 55% dei seggi. Non uno in più. Quindi una distorsione che, per quanto enorme, non consentiva alla maggioranza di cambiare la Costituzione senza mettersi d’accordo con la minoranza, con la quale doveva necessariamente ricercare il dialogo anche per eleggere i componenti degli importantissimi organi di garanzia di cui abbiamo parlato prima (i giudici costituzionali, o i componenti del CSM).
Nel sistema uninominale invece, quando una forza politica, per la concentrazione territoriale del consenso o per la divisione dell’opposizione, è in grado di vincere sulla stragrande maggioranza dei collegi, essa gode di un effetto amplificatore del risultato, che ha un limite solo nel numero stesso dei collegi2. Ci si immagini cosa sarebbe successo se questa situazione si fosse verificata con un sistema come il tanto ingiustamente osannato Mattarellum (qui sì il latinismo dispregiativo ci sentiamo di usarlo) nel quale ben il 75% dei seggi era assegnato con questo meccanismo.
Questa legge, quindi, è contraria al criterio democratico-rappresentativo su cui si fonda la nostra Costituzione. La Corte costituzionale probabilmente non interverrà perché ha già detto in passato che il sistema proporzionale non è obbligatorio e comunque non sarebbe facile intervenire sul meccanismo di riparto, dato che non si tratterebbe di eliminare una singola norma, come fu per il premo di maggioranza, ma si tratterebbe di ribaltare tutto il sistema, che è strutturalmente pensato così. Eppure, speriamo che la Corte modifichi la sua giurisprudenza per tutelare davvero l’eguale rappresentanza dei cittadini-elettori. E a prescindere da questo ci auguriamo che il sistema politico voglia finalmente smettere di barare, creando a tavolino un consenso che non c’è, e affronti le proprie responsabilità democratiche. Il sistema proporzionale non è la panacea di tutti mali, ma è più coerente con il principio democratico su cui è fondata la nostra società.
- comunemente detta Rosatellum, non ce ne vogliano i nostri lettori se non ci pieghiamo all’andazzo dei nomignoli latineggianti, dato che si è completamente perso il senso dispregiativo con cui, la prima volta, il prof. Sartori ribattezzò in Mattarellum la legge elettorale del 1993, proprio per sottolinearne l’arcana complessità, appunto, come un latinorum [↩]
- in Italia, in ogni singolo collegio, vince direttamente chi ha anche un solo voto in più degli altri. Ponendo che vi siano 10 partiti in lizza, e che nove di essi prendano tutti 10.000 voti, mentre il decimo ne prende 10.001, sarà solo quest’ultimo ad eleggere il deputato. Gli altri 90.000 mila elettori non avranno così alcuna rappresentanza, il loro suffragio sarà bruciato. È il metodo anglosassone de “the winner takes all”. Solo che nei sistemi anglosassoni, prima delle elezioni, vi sono serrate primarie di collegio, per cui i candidati finali sono già stati vagliati dagli elettori. Nei collegi uninominali francesi, invece, passano al secondo turno tutti coloro che hanno raccolto almeno l’8,5% dei voti. Le cose, come si vede, sono assai più complesse del semplicismo italico [↩]