Il vertice USA-Nord Corea. Dietro l'apparente improvvisazione, la politica americana sembra aver trovato coerenza. E noi restiamo a guardare.

di Marco Ottanelli

Prologo

Uno strano destino pare ripetersi nella storia americana e del Mondo : i presidenti statunitensi democratici, buoni e amati dal popolo, portano il loro paese alla soglia della guerra termonucleare globale; i presidenti repubblicani, brutti cattivi e disprezzati dall’opinione pubblica, firmano accordi di pace e mettono fine a decenni di pericolosa, perniciosa conflittualità.

Chi dette inizio alla spaventosa guerra del Vietnam ? Il semicanonizzato J. F. Kennedy.
Chi proseguì con la devastante escalation che la caratterizzò ? Il suo vice e successore, L. B. Johnson.

Chi decise di ritirare gradualmente le truppe, e di avviare, dapprima in segreto e poi pubblicamente, i negoziati che portarono all’accordo di pace di Parigi ? Il vituperato R. M. Nixon.

Chi aveva interrotto le relazioni con la Cina fin dal momento della presa del potere di Mao, nel 1949 ? il democratico H. S. Truman, vice e successore di Roosvelt.
Chi le ristabilì, 23 anni dopo, con il suo storico viaggio a Pechino ? Il suddetto Nixon.

Per quanto riguarda la lunghissima relazione con l’Urss, le cose son state molto (ancora più) complesse ed articolate, ma chi ha avuto in sorte il ruolo del firmatario degli accordi che hanno posto definitivamente fine alla Guerra Fredda ? R. W. Regan, l’ultraconservatore, l’ultraliberista, il superfalco del partito repubblicano.

Nel 2018 assistiamo ad uno storico accordo tra il più piccolo dei dittatori nordcoreani, Kim Jong Un ed il più improbabile dei presidenti americani, D.J. Trump.

Chi lo avrebbe mai detto.

Lo stato di guerra

Quando facciamo riferimento all’accordo USA- Nord Corea del 12 giugno 2018, teniamo sempre in conto, per valutarne l’importanza e l’eccezionalità, che i due pesi sono ancora formalmente in stato di guerra tra loro, non essendo stato, l’armistizio del 1953, mai trasformato in pace.

Alla pace ancora non siamo, ma il momento è indubbiamente storico, giunto dopo anni di tensione crescente e di lanci di missili nel Mar del Giappone. Dobbiamo riconoscere alla amministrazione Trump di aver saputo cogliere non solo «il momento propizio», ma anche di essere stati in grado di elaborare i segnali che giungevano da Pyongyang nel modo giusto. A questo proposito è interessante ragionare, sul come e perché la N. Corea abbia così palesemente e continuativamente effettuato tante e così gravi provocazioni agli Usa (minacciando di «distruggerli», addirittura) e al mondo intero, facendo infuriare, con i suoi missili ed il suo piano di sviluppo nucleare, persino la Cina. Molti osservatori, e questa è da tempo la nostra opinione, hanno ritenuto che tutto ciò sia stato un grezzo, brutale, diciamo primitivo ma sentito grido d’aiuto.

La N. Corea vive in una condizione permanente di carestia, sempre sull’orlo di un “baratro umanitario” ed economico profondissimo. Il suo regime, un regime folle e autocratico, ha disperato bisogno di aiuti, ma ha anche la necessità (maniacale) di apparire forte e al pari livello della massima potenza mondiale, onde evitare ogni segnale di debolezza che, nella idolatria di stato, è inaccettabile. Digrignare i denti non come un lupo famelico, ma come un cagnetto terrorizzato: questo è quanto ha fatto Kim ultimamente. E l’apparato diplomatico di Trump ha saputo leggere tra le righe.

La riprova sta negli errori della precedente amministrazione Obama, il cui think tank (il gruppo di esperti impegnato nell’analisi e nella soluzione di problemi complessi, specie in campo economico, politico o militare che ogni presidente crea e ascolta) è andato completamente nel pallone su più di un tema chiave, con continue inversioni di rotta, e conseguente danno incalcolabile, sulle questioni Libia, Siria, Sudan, Egitto (per fare solo alcuni esempi). Rispetto alla N. Corea, Obama ed i suoi consiglieri non ne hanno azzeccata una.

Oscillazioni

Quale è stata la strategia americana obamiana nei confronti del paese dittatoriale? Inizialmente si è sottovalutata in modo miope la centralità di quello Stato, cercando di “contenerlo” con una serie di accordi tra Usa e alleati in Asia Orientale. E delegando al presidente sud coreano dell’epoca, Lee Myung-bak, la decisione su come gestire i rapporti con il Nord. E Lee, un conservatore nazionalista, ha deciso di usare la mano pesante: ad ogni azione di Pyongyang, reagiva con durezza e muscolarità militare, reclamando (ed ottenendo!) esercitazioni congiunte con gli Usa dove venivano sfoggiati armamenti e bombardieri sempre più aggressivi. La politica di Lee, subita passivamente da Obama, era essa stessa una provocazione per i nordcoreani. Ciononostante, in una tipica oscillazione, anzi, giravolta della diplomazia obamiana, nel 2012, quasi a sorpresa, venne sottoscritto un accordo, il Leap Day Agreement, piuttosto significativo sotto vari aspetti, dato che prevedeva l’interruzione del programma nucleare e di quello missilistico nordcoreano in cambio di 250 tonnellate di cibo americano. In pratica era una confessione, una conferma di quanto qua scritto poc’anzi : la Nord Corea ammetteva di essere alla fame, e dimostrava come i suoi ruggiti fossero in realtà implorazioni. Tutto sarebbe andato bene se Washington non avesse visto prevalere ancora una volta i falchi negli uffici della Casa Bianca: quando, a neanche un mese dalla firma del trattato, il presidente Kim volle effettuare un lancio missilistico in onore del Padre della Patria, Kim Il Sung, del quale ricorreva il centenario della nascita. Ebbene, invece di considerarlo per quel che era, un banale super-fuoco d’artificio, gli Usa stracciarono il Leap Day Agreement, denunciarono il lancio all’ONU ed ottennero due risoluzioni di condanna, la 2087 prima e la 2094 poi, innescando un circolo vizioso di lanci balistico nordcoreani e la imposizione di sempre maggiori sanzioni da parte dell’occidente. Tutto il percorso fatto fino a quel momento era stato distrutto.

Arriva Donald

L’elezione di Trump alla Casa Bianca ha sconcertato le cancellerie di mezzo mondo, ma ha suscitato a Pyongyang curiosità ed interesse. Il regime ha saggiato il terreno a modo suo: provocando; con atti gravi, pesanti e ripetuti.

Lo scenario, tra un allarme e l’altro, cambia rapidamente, portando – da un lato – ad una escalation di gesti clamorosi fatti di lanci di razzi e missili, manovre navali, spiegamenti di truppe, e – dall’altro- ad un intensissimo e fittissimo lavoro diplomatico, messo in moto dal nuovo think tank repubblicano, terribilmente e muscolarmente determinato nella sua tracotanza, ma anche lucidamente e coerentemente determinato nei suoi fini.

Approfittando della entrata in carica del nuovo presidente sudcoreano, il progressista e pacifista Moon Jae-in , e della sua intensa attività nelle relazioni bilaterali con il Nord (sfociate nello storico vertice intercoreano dell’aprile 2018) gli Usa hanno contattato e coordinato le loro azioni e posizioni sulla Corea del Nord con i Paesi del Pacifico (compreso il riottoso Giappone), la Russia (anche se dirlo ufficialmente avrebbe creato ulteriori sospetti, in tempi di Russiagate) e ovviamente la Cina, il partner privilegiato (meglio: unico) di Pyongyang. È stato come giocare a scacchi su una scacchiera a più lati e con un numero ampio di giocatori, tutti con interessi diversi, e non tutti pienamente razionali. Mentre il dittatore nordcoreano ed il presidente statunitense si scambiavano pesantissime accuse, minacce reciproche di distruzione e annullamento, e grottesche offese personali, il segretario di stato Usa Tillerson prima, e soprattutto il suo successore Mike Pompeo, giocavano una delle partite più complesse e determinanti di questi ultimi anni.

Sappiamo poco, come sempre, del dietro le quinte, ma ne conosciamo i risultati, almeno i più evidenti: l’accordo commerciale Cina-Usa (che ha permesso il riequilibrio della bilancia commerciale senza dover ricorrere ai minacciati dazi), il rafforzamento ed il coinvolgimento dell’Asean (la Nato del Pacifico) nel processo decisionale economico di quella immensa area, area evidentemente privilegiata a quelle europee ed atlantiche, come dimostrato nel recente e per certi versi irritante comportamento di Trump al G7 in Canada.

In poche parole, la valutazione di pro e contro, i passi da fare, le priorità son state valutate tutte con molta attenzione, e con una precisa idea di coerenza, che ovviamente deve essere giudicata non con l’occhio di noi europei, messi al margine, ma con quello del nuovo corso di Washington, che, ci piaccia o meno, ha raggiunto molti dei suoi goals. Uno dei quali è sempre stato questo vertice con la Corea del Nord al suo massimo livello. Un successo innegabile. Anche alla luce di un fatto altrettanto innegabile, oggettivo, forse preoccupante ma sicuramente da soppesare in modo serio: nonostante tutte le sanzioni e gli attacchi informatici scatenati (e palesemente falliti) negli ultimi anni dall’amministrazione Obama, oggi la Corea del Nord ha veramente raggiunto la capacità di colpire il territorio americano. E quindi, c’è poco da scherzare.

I risultati di oggi. E quelli di domani.

Non vogliamo apparire né retorici né ingenuamente ottimisti, ma ogni volta che, invece della distruzione di ogni forma di vita sulla Terra a seguito di un conflitto atomico, assistiamo ad una stretta di mano, noi siamo abbastanza contenti.

Un vertice presidenziale è sempre preceduto e seguito da vertici a più bassi livelli, che sono poi gli ambiti dove si prendono le decisioni dettagliate. Per quanto riguarda quello Trump-Kim, riportiamo qua sotto il testo della dichiarazione finale congiunta. Poco più di belle parole, è vero, ma la diplomazia è sicuramente al lavoro per il raggiungimento di più concreti risultati.

In ogni modo, il più importante punto, e forse il più concreto, è quello concernente la denuclearizzazione della intera penisola coreana, il che comporta lo smantellamento delle basi nel Sud e la distruzione delle basi nel Nord. Nessuno può negare la portata di un simile impegno, il cui effettuarsi dipende ora dalla onestà, capacità ed equilibrio delle parti.

Non si accenna ai diritti umani, ma Trump, nella conferenza stampa che ha seguito la firma, ha dichiarato di averne parlato direttamente. Speriamo serva a qualcosa.

Non si legge neanche di aiuti in termini di cibo, medicine e tecnologia, ma è impossibile che questi temi siano rimasti fuori dai negoziati.

Ora si prospetta, anche grazie ai progressi del sudcoreano Moon, una nuova epoca di pace e sviluppo.

Per l’Europa, per noi, sarebbe auspicabile non esserne tagliati fuori, ed avere un ruolo positivo. Chissà se qualcuno, a Roma, Berlino, Parigi e Bruxelles, ci ha pensato. O se hanno perso il tank ed anche il think.

DICHIARAZIONE CONGIUNTA DEL PRESIDENTE DONALD J. TRUMP DEGLI STATI UNITI D’AMERICA E DEL PRESIDENTE KIM JONG UN DELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA POPOLARE DI COREA AL SUMMIT DI SINGAPORE.

Il presidente Donald J. Trump degli Stati uniti d’America e del presidente Kim Jong Un della Repubblica democratica popolare di Corea (DPRK) hanno tenuto un primo storico summit a Singapore il 12 giugno 2018. Il presidente Trump e il presidente Kim Jong Un hanno condotto un complessivo, profondo e sincero scambio di opinioni sulle questioni relative lo stabilimento di nuove relazioni Usa-Dprk e sulla costruzione di un regime di pace robusta e duratura nella Penisola coreana. Il presidente Trump s’è impegnato a fornire garanzie di sicurezza alla Dprk e il presidente Kim Jong Un ha ribadito la sua ferma e incrollabile determinazione per una completa denuclearizzazione della Penisola coreana. Convinti che stabilire nuove relazioni Usa-Dprk contribuirà alla pace e alla prosperità della Penisola coreana e del mondo e riconoscendo che la costruzione di una reciproca fiducia potrà promuovere la denuclearizzazione della Penisola coreana, il presidente Trump e il presidente Kim Jong Un stabiliscono quanto segue:

  1. Gli Stati uniti e la Dprk s’impegnano a stabilire nuove relazioni Usa-Dprk in accordo con il desiderio dei popoli dei due Paesi alla pace e alla prosperità.
  2. Gli Stati uniti e la Dprk uniranno i loro sforzi nel costruire un regime di pace duratura e stabile nella Penisola coreana.
  3. Ribadendo la Dichiarazione di Panmunjom del 27 aprile 2018, la Dprk s’impegna a lavorare verso una completa denuclearizzazione della Penisola coreana.
  4. Gli Stati uniti e la Dprk s’impegnano a recuperare i resti dei prigionieri di guerra, con l’immediato rimpatrio di quelli già identificati. Avendo preso atto che il summit Usa-Dprk, il primo nella storia, è stato un evento epocale di grande significato per superare decenni di tensioni e ostilità tra i due Paesi e per l’apertura di un nuovo futuro, il presidente Trump e il presidente Kim Jong Un s’impegnano a realizzare pienamente e rapidamente quanto stipulato in questa dichiarazione. Gli Stati uniti e la Dprk s’impegnano a proseguire i negoziati, guidati dal segretario di Stato Usa Mike Pompeo e i relativi alti funzionari Dprk, alla prima data possibile, per implementare gli esiti del summit Usa-Dprk. Il presidente Donald J. Trump degli Stati uniti d’America e del presidente Kim Jong Un della Commissione affari di stato della Repubblica democratica popolare di Corea si sono impegnati a cooperare per lo sviluppo delle nuove relazioni Usa-Dprk per la promozione della pace, della prosperità e della sicurezza della Penisola coreana e del mondo”.


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