La commedia infinita. La nuova legge elettorale. Come si voterà.

di Gabriele Pazzaglia

Per la quarta volta in 20 anni il Parlamento italiano si è occupato della legge elettorale. Difficile per il cittadino comune orientarsi nella confusione creata da questa matassa di riforme, controriforme, stravolgimenti, interventi della Corte costituzionale, aggiustamenti e proposte varie. Speriamo, con questo scritto, di aiutare chi è interessato a capire come si voterà e quali interessi sono stati messi in gioco.
Abbiamo diviso questo scritto in quattro parti: la prima è una sorta di scheda tecnica, un breve manualetto di istruzioni per capire cosa prevede oggettivamente il nuovo sistema.

Segue, nella seconda, un nostro commento, opinioni soggettive, con argomenti storici e comparatistici, per spiegare perché secondo noi la riforma è sbagliata.
La terza parte è una nostra modesta proposta su come dovrebbe essere il sistema elettorale.
Infine i motivi per cui questa riforma potrebbe essere incostituzionale.

PARTE PRIMA
Scheda tecnica

Un sistema misto.

È noto che il cosiddetto Rosatellum, già approvato sia alla Camera che al Senato con la questione di fiducia, posta dal Governo, che ha impedito il dibattito parlamentare (e che ha indotto il Presidente Grasso ad abbandonare il suo partito, il PD), è un complicato sistema per 1/3 maggioritario e 2/3 proporzionale. Ma che vuol dire concretamente? Che differenza c’è tra le due parti?

  • Proporzionale vuol dire, banalmente, che un partito riceve seggi in parlamento in proporzione al numero di voti ricevuti. Chi prende il 30%, ad esempio, riceve il 30% dei parlamentari. Non uno di più, non uno di meno.

  • Maggioritario invece è una galassia che comprende tutti i sistemi diversi dal proporzionale. I principali sono quelli che prevedono un premio di maggioranza a chi arriva “primo” (come la legge Calderoli del 2005) e quelli che dividono il territorio nazionale in tanti collegi uninominali quanti sono i posti da assegnare. Ogni collegio elegge uno ed un solo parlamentare, colui che ha preso… la maggioranza. Proprio quest’ultimo è il sistema previsto dalla nuova legge Rosato.

La parte maggioritaria. Un vantaggio per i grandi partiti e per quelli localistici.

Ben un terzo dei seggi (alla Camera 232 e al Senato 116) saranno assegnati con i collegi uninominali. Dunque, per questa parte, il risultato sarà influenzato in modo determinate la distribuzione territoriale dei voti. Caratteristica naturale di questo sistema è la tendenza ad avvantaggiare i partiti più grandi e quelli che hanno una concentrazione appunto territoriale.

Perché in questo meccanismo non conta di quanto si vince, ma quante volte si vince, anche se di poco.

Se caliamo questa regola astratta nel possibile panorama politico tripolare (o multipolare) che si verificherà alle prossime elezioni, è possibile una distorsione anche di 100 deputati. Infatti se vi fosse una forza politica che si attesti al 35% dei voti ed altre due al 20%, queste ultime sarebbero soverchiate dal primo che, riuscendo a vincere anche di poco in tanti collegi, farebbe incetta di seggi parlamentari, lasciando le briciole a chi comunque rappresenta una fetta consistente del corpo elettorale.

Molto probabile è il vantaggio che otterrà la Lega (ex Nord). Se ad esempio con il 10% dei voti nazionali, concentrati in una zona d’Italia, riuscisse a vincere nel 20% dei seggi, raddoppierebbe la sua rappresentanza.

Molti hanno accusato il PD e Forza Italia di essersi ritagliati una legge elettorale su misura che dovrebbe permettere ad una delle due formazioni di massimizzare anche un piccolo vantaggio elettorale ai danni del Movimento 5 Stelle, sfruttando la scelta di questi ultimi di non fare coalizioni.
PD e Forza Italia non si sono sprecati nel respingere le accuse. Ma non è detto che il calcolo funzioni. Quante volte i passati sondaggi si sono rivelati inutili esercizi di stile? E se gli effetti maggioritari nelle varie zone d’Italia si compensassero a vicenda, sarebbe possibile un Parlamento con tre o quattro forze equilibrate. E questa legge si sarebbe rivelata inutile.

Dunque una legge che ha un potenziale effetto distorsivo, ma che potrebbe essere annullato dal voto stesso. Come d’altronde, e per fortuna, qualunque sistema elettorale del mondo, dove vince ancora la volontà dei cittadini rispetto alle teorie matematiche.

La parte proporzionale. Liste brevi ma senza le preferenze.

Saranno ripartiti in proporzione ai voti ricevuti i restanti 386 seggi alla Camera (630 meno i 12 riservati all’estero meno i 232 dei collegi uninominali) e i 193 al Senato (315 meno i 6 riservati all’estero meno i 109 dei collegi uninominali, meno 6 del Trentino e 1 della Valle d’Aosta).

Questa parte prevede un sistema veramente proporzionale: in base ai voti ricevuti da ogni partito in tutto il Paese, sarà stabilito quanti seggi saranno da essi ottenuti. Poi attraverso calcoli matematici saranno redistribuiti nelle varie circoscrizioni (più o meno grandi come le regioni) e poi nei collegi plurinominali.

Per l’assegnazione di questi seggi le preferenze avrebbero ben potuto essere inserite. Non c’era alcun ostacolo giuridico. Ma l’accordo PD-Forza Italia-Lega è andato in un’altra direzione e – per loro scelta – le liste saranno fatalmente bloccate. Andranno in Parlamento gli eletti secondo l’ordine di presentazione, deciso dal partito. Esattamente come Porcellum, tanto vituperato a parole, quanto evidentemente apprezzato di fatto dai partiti che lo hanno un tempo approvato o oggi confermato.

I proponenti della riforma giustificano la scelta sostenendo che nonostante ciò l’elettore possa comunque far sentire la sua voce e di fatto scegliere il proprio candidato perché le liste, benché bloccate, sono molto brevi: massimo quattro candidati per partito, prevede espressamente la legge. Mentre nel Porcellum erano molto lunghe e i politici quindi non conoscibili.

Sempre la legge prevede che ogni collegio potrà eleggere fino ad otto parlamentari (il numero preciso sarà stabilito, in base alla popolazione, con l’indizione delle elezioni). Questo porta alla concreta possibilità che vi siano più eletti che candidati per due motivi: primo, un partito particolarmente forte in una zona potrebbe eleggere cinque persone. Secondo, ogni persona può candidarsi in cinque collegi diversi e in caso di elezione multipla dovrà scegliere quale zona abbandonare, liberando un posto.
In questi casi a chi viene assegnato il seggio ottenuto dal partito, che però non ha proposto il candidato? È stabilito che passi il primo dei non eletti, individuato con un calcolo matematico, tra gli altri collegi, nella stessa circoscrizione, dove vi è il seggio vacante. E nel caso non vi fosse, il primo fuori dalla circoscrizione.

Se ci saranno “ripescati”, e chi saranno, è quindi difficilmente prevedibile: con i voti espressi in Calabria può passare il primo dei non eletti in Veneto o viceversa.

Come spiegheremo più avanti la qualità vantata della lista breve (“saprete esattamente chi eleggerete”) pare di fatto scomparire, e gli impegni presi in un collegio inevitabilmente saranno insignificanti.

Un solo voto.

Nonostante vi siano due sistemi paralleli ogni elettore avrà un solo voto per il Senato e uno solo per la Camera. Cioè gli elettori non avranno la possibilità di esprimere un voto disgiunto, nel caso in cui, ad esempio, per la parte maggioritaria sia candidato un galantuomo, espressione di posizioni simili a quelle dell’elettore, e nella parte proporzionale vi siano persone che non piacciono, l’assurda alternativa a prendere il pacchetto completo è votare un altro partito o non votare. Un sistema così può avere una sua plausibilità, forse sarebbe anche accettabile, se vi fosse la possibilità di esprimere preferenze per la parte proporzionale. Con le liste bloccate invece si traduce in un’ulteriore ingerenza nella libertà dell’elettore.

Divieto di voto disgiunto vuol dire che si può mettere una ed una sola croce. L’elettore dovrà quindi fare attenzione ad esprimere correttamente il proprio voto e a non farlo annullare.

Aiutiamoci con l’immagine della futura scheda per capire:

Scheda elettorale rosatellum

I rettangolini lunghi, contengono il nome e il cognome del candidato uninominale. Sotto ognuno di essi vi sono i rettangoli più corti con la lista dei candidati nel collegio plurinominale (cioè nella parte proporzionale), accanto al simbolo del partito qui rappresentato dal cerchio.

 

Il modo normale di espressione del voto è tracciare una croce nel rettangolo che contiene il simbolo del partito e la lista dei candidati nella parte proporzionale (il rettangolo corto).

Così facendo si vota sia per questi ultimi sia per candidato nella parte maggioritaria, al quale il voto automaticamente si estende.

Importante è non scrivere nessun nome visto che non ci sono le preferenze.

 

Se si traccia un segno sul candidato nel collegio uninominale (il rettangolo “lungo”) il voto si estende alla quota proporzionale ma – attenzione – se questo candidato è collegato ad una coalizione (e non ad una lista singola), il voto si divide, e va alle varie liste che la compongono in proporzione ai voti espressi.

Vuol dire che se votiamo in questo modo, per la parte proporzionale finiamo per votare non ciò che vogliamo ma ciò che hanno votato gli altri. Insomma, aiutiamo il partito più forte della coalizione, anche se è quello che ci piace meno.

Lo sbarramento.

La legge Rosato prevede varie soglie di sbarramento.

Tutte le liste, che siano o meno in coalizione, devono superare almeno il 3%, altrimenti non riceveranno seggi.

Per le coalizioni vi è però l’ulteriore soglia del 10%. E per il suo raggiungimento si contano i voti dei partiti che abbiano preso almeno l’1% (quindi anche se non raggiungono il 3% e di conseguenza non prendono deputati!). Ad esempio se una coalizione è fatta da un partito che ha il 15% dei voti e da 5 partiti che hanno il 2% l’uno, la coalizione prenderà il 25% dei seggi. Ma visto che solo il primo partito ha superato il 3% questo riceverà tutti i seggi ottenuti dalla coalizione: praticamente “vampirizza” i seggi dei suoi alleati che non entrano in Parlamento. In barba alla volontà popolare.

Inoltre se la soglia del 10% non viene superata, la coalizione è come se non fosse mai esistita. Ma i partiti non andranno tutti automaticamente a casa. Per loro varrà solo la soglia generica del 3%, solo non sarà applicato il meccanismo appena descritto che consente al partito maggiore della coalizione di appropriarsi dei voti dei partiti che hanno superato l’1% ma non il 3.

Una serie di complicazioni che sfuggono alla stragrande maggioranza degli elettori.

PARTE SECONDA
Il nostro commento

Come davanti ai titoli di coda di un film con la trama sfilacciata, questa legge lascia il sentore che i partiti abbiano molta confusione tra loro idee sul sistema elettorale.

Curiosamente il Partito Democratico e la Lega si sono trovati su posizioni coincidenti. Il primo avrebbe voluto una legge «completamente maggioritaria», come ha detto Fiano in sede di relazione alla proposta. Avrebbero comunque accettato anche un ritorno del Mattarellum (75% dei seggi attribuiti con i collegi e il restante proporzionale) ma hanno infine ripiegato sul testo poi approvato, «date le condizioni politiche e i numeri del Parlamento». Così come chiedeva la Lega che, conscia dei parlamentari extra che gli pioverebbero dal cielo, ha chiesto una legge di «impianto maggioritario», ed avrebbe accettato anche il Mattarellum (come dichiarato dall’on. Invernizzi). Maggioritario chiesto anche da Ala (i verdiniani) e i residuati di Scelta Civica: forse sperando di trovare riparo sotto l’ombrello protettore di qualche partitone(( Tutte le dichiarazioni sono tratte dalla discussione generale che precede quella sugli emendamenti svoltasi alla Camera dei deputati il 6 giugno 2017)).

Tra i favorevoli alla legge anche Forza Italia, che ha addirittura rivendicato la paternità della legge e il fatto che essa sia «di stampo proporzionale». Una vera inversione di rotta per il partito che nel 2005 votò la legge Calderoli con un premio di maggioranza talmente esagerato che è stato dichiarato incostituzionale. Anche Alternativa popolare ha votato a favore dopo aver ottenuto l’abbassamento dello sbarramento dal 5 al 3%.

Le sinistre hanno votato contro ma con giustificazioni sottili. SEL ha fatto sapere durante il dibattito che con il voto disgiunto sarebbe stata favorevole (Marcon). Stesso argomento affermato da MDP-articolo 1, il quale ha criticato anche la mancanza delle preferenze (Quaranta). Contrari anche Fratelli d’Italia che avevano proposto un «proporzionale» ma che avesse un «premio di maggioranza», che quindi proporzionale non è, dimostrando così una certa confusione (La Russa).

Il Movimento 5 stelle ha votato contro il progetto dopo averlo sostenuto in commissione durante la prima lettura, ed aver chiesto allora anche una velocizzazione della discussione. Benché la loro proposta fosse molto diversa: un proporzionale con circoscrizioni più grandi nelle aree metropolitane e più piccole in quelle rurali, di modo da avvantaggiare in queste ultime i partiti più grandi. Il partito aveva infatti calcolato una soglia di sbarramento aritmetica al 5% e una una sottorappresentazione dei gruppi sotto il 15%((Qui il testo della proposta elaborata sulla piattaforma internet del Partito dei 5 stelle)).
Alla fine ha scelto di schierarsi contro la proposta.

Il maggioritario non c’entra con la governabilità.

Come abbiamo detto la parte maggioritaria del sistema ha l’esplicito obiettivo di sovrarappresentare i partiti più grandi: cioè dare di più a chi già ha.
Secondo i proponenti, ciò dovrebbe avere un effetto benefico sul sistema politico: regalando parlamentari “extra” ai partiti più grandi, si indurrebbero a coalizzarsi con essi i più piccoli. E così facendo anche questi ultimi si vedrebbero regalare più parlamentari in un circolo virtuoso verso la tanto agognata “governabilità”.

Questo mi sembra un principio sbagliato di per sé. Perché mai un partito qualsiasi dovrebbe avere più seggi parlamentari di quanti ne meriti? Tutta la storia della democrazia è un continuo travaglio per contenere “la tirannide della maggioranza”. Possiamo accettare che il Governo sia della minoranza?

Ma anche a voler ignorare questa minuzia, da dove viene questa singolare idea che il maggioritario porti la “governabilità”? Gli esempi esteri dimostrano il contrario.

Nessun paese ha adottato il maggioritario uninominale per darsi un governo stabile. Nel Regno Unito esso (r)esiste per la tradizione che risale alle condizioni in cui è nata la democrazia inglese: come rappresentanza degli interessi delle singole città contrapposti al potere centrale della Corona. Ogni città eleggeva una persona. Poi, mentre il sistema costituzionale è cambiato, questo strumento del passato è rimasto. Ma non è certo fondamentale per la scelta del Governo che può essere retto anche da accordi di coalizione formatisi in Parlamento, cioè dopo le elezioni (come il governo di coalizione conservatori e liberal-democratici 2010-15 o quella attuale conservatori e Unionisti dell’Irlanda del nord e altri negli anni passati).
La tradizione è resistita anche nei paesi anglofoni, come negli Stati Uniti. Lì c’è sì il maggioritario, ma anche in quel caso non è essenziale alla scelta del Governo, che è eletto direttamente. Il meccanismo pare adattarsi a quel sistema di pesi e contrappesi che è molto diverso dal nostro: lì è fisiologico che le Camere abbiano colore politico diverso (da noi è inaccettabile), molte le magistrature sono di nomina politica e a vita (da noi sono burocratiche), è un paese federale… etc, etc…
Terzo caso noto è la Francia: il maggioritario è il sistema della V repubblica gollista del 1958 (prima c’era il proporzionale). È stato pensato come lo strumento per dare al Presidente la “sua” maggioranza. Non è un’idea molto avanzata di democrazia. Ma soprattutto si è rivelato utilissimo per tenere fuori dal Parlamento il Front National. Nel 1985, Mitterand reintrodusse il proporzionale per contenere gli effetti della debacle elettorale che si prefigurava. Il gioco riuscì e la destra di Chiraq vinse, ma con una maggioranza risicata. Questa si incaricò immediatamente di tornare al sistema precedente (e attuale) per evitare che permanessero nel parlamento la trentina di deputati del FN che con il nuovo sistema era entrata. Infatti da quel momento il patto repubblicano li ha mantenuti fuori dalla rappresentanza, proprio grazie al maggioritario. Nulla a che vedere con la “governabilità”, e ben lo sanno i socialisti di Hollande, paralizzati da debolezze e incertezze per quasi tutto il suo mandato, e poi sbaragliati da Macron, un suo ex, che si è inventato un movimento suo proprio e che ha conquistato l’Eliseo con neanche il 30% dei voti validi.

Anche la recente storia italiana dimostra che il nostro Paese non è stato più stabile con il Mattarellum, benché prevedesse una componente maggioritaria di ben tre quarti, quindi molto più grande di quella proposta dall’odierna legge che è di solo un terzo.

Nelle elezioni del 1994 il Polo delle Libertà (Berlusconi) prese il 42% nella parte uninominale (17,7 milioni di voti) e 302 deputati. Con appena un quarto dei voti in meno i Progressisti (32%) presero appena la metà dei seggi (164). Il patto Segni con il 15% dei voti appena 4 seggi!.
A prima vista una grande razionalizzazione ad opera del sistema elettorale. Però la legislatura durò meno di due anni (con due governi) e con travagli indicibili.

Nelle elezioni del 1996, sempre col Mattarellum, il Polo delle Libertà (Berlusconi) prese il 40% nella parte uninominale (15 milioni di voti) e 169 deputati. L’Ulivo, con 500 mila voti in meno ottenne 60 deputati in più (38,5% e 228 seggi).
Eppure vi furono quattro governi (tre dei quali con maggioranza diverse da quella uscita dalle urne), caratterizzati da veti reciproci tra ministri, tradimenti, cambi di casacca, cambi di schieramento, e altissima conflittualità interna: alla fine della legislatura il gruppo parlamentare più numeroso era il gruppo misto!

Nelle elezioni del 2001, la Casa delle Libertà (sempre Berlusconi) prese il 45% (16,9 milioni di voti) e 282 seggi. L’Ulivo, con appena 900 mila voti in meno prese ben 100 deputati in meno (183 seggi). E vi furono due governi frutto di un rimpasto dopo la sconfitta alle regionali.

Dunque, se lo stesso sistema elettorale ha creato per 7 anni instabilità, e solo una legislatura relativamente stabile, come si può dire che esso possa risolvere tutti i problemi di precarietà dell’indirizzo politico della Nazione? Vi è stabilità là dove vi sono idee chiare, capacità di fare accordi di ampio respiro e la volontà di rispettarli fino in fondo. Tutte cose delle quali l’Italia è priva per l’insipienza atavica della sua classe politica, e che non potrà mai migliorare grazie solo alle leggi elettorali o all’uso del potere normativo. Così come non sarebbe possibile aumentare o diminuire la distanza tra la Terra e la Luna facendo una legge.

Le liste brevi che non sono brevi. Ma le preferenze le tolgono davvero.

Altro limite della legge approvata è la mancanza delle preferenze. Eppure secondo i proponenti essa costituisce «la restituzione agli elettori del diritto di scegliere i propri rappresentanti», come ha avuto il coraggio di dichiarare durante la discussione il relatore di maggioranza Fiano.

È necessario precisare che il dibattito pubblico degli ultimi 20 anni è stato inquinato da miti ed imprecisioni riguardo alle preferenze: esse non esistono più dal 1994 perché già il Mattarellum semplicemente non le prevedeva. Nonostante ciò molti credono che esse siano state abolite dalla legge Calderoli nel 2005. Addirittura l’accusa di incostituzionalità di tale sistema è stata una delle prime battaglie del M5S. Ma molti fanno confusione: una cosa sono le preferenze (singola o multiple) in un sistema proporzionale, che permette di scegliere tra un elenco di candidati proposto dal partito che si vota; altro è l’alternativa tra più candidati in un collegio uninominale (maggioritario) nel quale la scelta si riduce ai nomi dei candidati prestampati sulla scheda: uno per partito, o addirittura per coalizione di partiti, calati dall’alto. E se non piace il candidato del nostro schieramento, le uniche alternative sono o votare per l’avversario o non votare!

Sia chiaro che il paradiso non esiste e non ci sono formule magiche: anche il sistema delle preferenze ha i suoi difetti, come la possibilità di controllo del voto che tanto ha delegittimato la prima repubblica, e al fatto che nei grandi numeri le singole preferenze si disperdono senza lasciar traccia. Ma a prescindere da come la si pensi i due sistemi non vanno confusi perché funzionano diversamente e rispondono a logiche diverse.

I proponenti della riforma affermano – come ha detto Fiano – che la libertà di scelta dell’elettore è salvaguardata perché vi saranno «liste corte, con i nomi dei candidati indicati sulla scheda a disposizione degli elettori», grazie al fatto che l’Italia sarà divisa in circoscrizioni, sia per la Camera che per il Senato, a loro volta ripartite in collegi plurinominali tendenzialmente piccoli.
Ma come abbiamo mostrato nella scheda tecnica il meccanismo stesso smentisce questi propositi: ci siano zone che eleggeranno fino ad 8 parlamentari ma ci saranno massimo 4 candidati. E tutti i politici si possono presentare in 5 collegi. Quindi c’è la possibilità che alcuni partiti in varie zone d’Italia abbiano più eletti che candidati. E si ricorrerà al metodo di ricerca del primo dei non eletti che può estendersi su tutta la penisola.

Insomma, si dice che le liste sono brevi. Ma non è vero. Semplicemente il proseguo della lista non lo vediamo e non possiamo sapere quale è.
Con buona pace per la libertà di scelta dell’elettore.

Lo sbarramento: il labirinto degli specchi.

Abbiamo detto che la soglia generica da superare per le liste è il 3%.
Per le coalizione è il 10%.

I voti delle liste che prendono tra il 3% e l’1% verranno conteggiati per la soglia di coalizione, benché i partiti non prenderanno seggi, che dunque andranno all’alleato che ha superato il 3%.
Facciamo un esempio di cosa può avvenire: pensiamo ad una coalizione Alternativa popolare-PD-SEL (o MDP). Se la lista di Alfano si fermasse al 2,9%, i suoi arcigni elettori contro il matrimonio per tutti, contribuirebbero ad eleggere quelli di SEL che sono a favore. O viceversa, se fosse SEL a fermarsi prima della soglia.

Ma è questa la chiarezza nei confronti dell’elettore che abbiamo sentito sbandierare?

E c’è di peggio: le liste in coalizione prendono il buono dell’alleanza, la possibile sovrarappresentanza, senza rischiare nulla. Infatti se viene superato il 10% le liste non vengono tutte eliminate, ma quelle che hanno superato il 3% comunque partecipano come se non fossero mai state raggruppate. Troppo comodo.

Una curiosità: I lettori più attenti si ricorderanno che la famigerata legge Calderoli prevedeva tanto lo sbarramento quanto il diabolico premio di maggioranza solo a livello regionale. Vi fu un dibattito sul punto con noti costituzionalisti che sostennero che tali regole potessero essere solo a tale livello, pena la violazione della Costituzione che prevede che il Senato «è eletto a base regionale» (art. 57). Ecco, oggi, costoro, dove sono, perché tacciono?

Collegi ritagliati per un Parlamento su misura.

La legge ha un altro grave difetto: fino ad ora abbiamo parlato dei collegi. Ma quali sono i loro confini, come sono disegnati, concretamente? Dove finisce uno e comincia l’altro? La risposta – incredibile a dirsi – è che non si sa. La precisa delimitazione è delegata al Governo che avrà un mese di tempo dall’entrata in vigore della legge per farlo. Quindi più o meno fino alla metà di dicembre.
I criteri che dovrà seguire il Governo sono troppo elastici: la proporzione con la popolazione residente è derogabile fino al 20% della media nazionale. Neanche il pollo di Trilussa!
E riguardo ai confini vi è un vago riferimento alla «coerenza del bacino territoriale» alle unità amministrative e alla loro «omogeneità sotto gli aspetti economico-sociale e delle caratteristiche storico-culturali». Nient’altro.

Invece, in un sistema nel quale la distribuzione territoriale del voto è determinante, i confini dei collegi sono cruciali e dovrebbero essere discussi approfonditamente. E qui la si consegna nelle mani di un Governo che cavalca il procedimento parlamentare con il rullo compressore della questione di fiducia.

Un grave vulnus per la nostra democrazia.

PARTE TERZA
Un sistema elettorale per l’Italia. La nostra proposta.

Fermo che i motivi che ho appena esposto mi portano a pensare che la legge elettorale non c’entri nulla con la stabilità dei governi, io credo che l’unico sistema adatto all’Italia sia il proporzionale. Per tre motivi: il primo, istituzionale, è che il nostro sistema costituzionale è strutturato per funzionare con la rappresentanza genuina della società nel Parlamento. Esso è l’unico organo eletto direttamente ed esso è il motore principale della formazione dell’indirizzo politico. È inoltre determinante per la formazione degli organi di garanzia: il Presidente della Repubblica in primo luogo, che può essere eletto con la maggioranza semplice dal 4° scrutinio, proprio perché si suppone che tramite una legge proporzionale rappresenti comunque la maggioranza del Popolo. Il Parlamento elegge poi un quinto della Corte costituzionale e un terzo del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno della Giustizia. Infine solo con una legge proporzionale ha senso il fatto che possa essere innescato il referendum per modificare la Costituzione anche con la semplice maggioranza dei componenti dell’Assemblea. E abbiamo visto il 4 dicembre scorso quanto sia nefasto procedere quando le maggioranze sono frutto di artifici matematici invece che di consenso reale.

Il secondo motivo è di chiarezza nei confronti dell’elettore. Negli anni del Mattarellum gli elettori hanno dovuto sopportati i candidati «paracadutati» nei «collegi blindati». Candidati che alle elezioni successive, qualunque cosa avessero fatto, sono stati trasferiti in un altra roccaforte e rieletti. Candidati la cui vera indole politica era nascosta sotto simboli che erano vere e proprie maschere incomprensibili: si votava Ulivo e si poteva eleggere da un margheritino ad un comunista, si votava Casa delle libertà e si poteva portare a Montecitorio da un leghista federalista a un democristiano centralista.
Noi, come Popolo, non abbiamo la cultura politica per questo sistema. La confusione nel periodo in cui è stato usato, è impensabile in sistemi come quello britannico dove ogni partito va con il “suo” simbolo. Là per una forza politica, tentare “l’accozzaglia” (cit.) che ripropone questo sistema, sarebbe un suicidio. Qui è stata una pratica premiata dagli elettori. Perché appunto noi siamo diversi.
Il terzo motivo è di (ri)legittimazione del sistema. Siamo in un periodo in cui tutti si lamentano della distanza tra eletti ed elettori, dell’astensione crescente, della mancanza di legittimità delle istituzioni. Molte volte infatti è stata denunciata “l’illegittimità” di questo Parlamento per il premio di maggioranza della legge Calderoli (poi dichiarata incostituzionale). E allora, perché non formare il Parlamento in base al consenso ricevuto? Perché dovrebbe governare la minoranza invece della maggioranza?

Sia chiaro, non penso che il proporzionale sia salvifico. Tutti i sistemi hanno i loro difetti. Ma questo è quello che meglio si adatta a noi. E la “governabilità” non c’entra nulla, perché essa dipende dal sistema dei partiti e dalla qualità delle persone. Si guardi ai Paesi Bassi e alla Germania, paesi proporzionalisti dei quali invidiamo la stabilità. Sono passati mesi dalle elezioni prima della formazione dei rispettivi Governi. Nessuno è morto, nessuna crisi di panico o emergenza. I partiti stanno lavorando per fare accordi che sappiamo dureranno. Non perché c’è una legge elettorale piuttosto che un altra. Non è questo il punto.

POSTILLA:
Ma siamo sicuri che la legge sia costituzionale?

Vi sono due gravi dubbi di incostituzionalità.

Il primo è che questa legge è stata approvata a ridosso delle elezioni: come abbiamo spiegato in un nostro articolo la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo vieta queste modifiche a meno di un anno dalle elezioni. Perché altrimenti si disorienta l’elettore che è portato a credere che la legge sia uno strumento manipolabile da chi detiene il potere per garantire sé stesso. E che quindi il proprio voto non conti nulla.

Visto che la nostra Costituzione all’art. 117 dice che la Convenzione è superiore alla legge, non si scappa: questa legge è incostituzionale. Il problema è come ottenere giustizia. Probabilmente non ci sono i tempi tecnici per una pronuncia della Corte prima delle elezioni. E dopo servirebbe a ben poco.
Certo è che la situazione è politicamente inaccettabile: questo Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale (la Calderoli) che ha prodotto una riforma anch’essa dichiarata incostituzionale (la Renzi) oggi approva una riforma in violazione palese di un termine oggettivo.

Si è dimostrato inefficace il controllo sulla costituzionalità delle leggi del Presidente della Repubblica, che dovrebbe rifiutarsi di firmare ma che sappiamo ha invece stimolato la riforma.

Riforma che potrebbe essere incostituzionale anche nel merito: i proponenti hanno sfruttato una oramai consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale secondo la quale le liste bloccate sono legittime se sono “brevi”.
La mancanza delle preferenze nella precedente legge Calderoli fu in effetti censurata dalla Corte, con l’argomento principale che tale legge prevedeva circoscrizioni molto grandi, e quindi per ogni lista vi era «un numero assai elevato di candidati» (Sentenza 1/2014). Tanto che nemmeno erano scritti sulla scheda ma su manifesti apposti fuori dalla sezione elettorale. Proprio quella lunghezza «priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti».

Invece secondo la Corte quando vi siano liste che seppur bloccate siano “brevi”, grazie alle circoscrizioni piccole, il numero dei candidati è «talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto»((Così la sent. 1/2014 che ha dichiarato incostituzionale la legge Calderoli (par. 5.1 del considerato in diritto), confermata dalla 35/2016 che ha dichiarato incostituzionale la legge Renzi)).

Io non sono d’accordo con questa giurisprudenza. Non riesco a capire perché una lista “breve”, fatta magari di quattro persone (con i problemi di ripescaggi che abbiamo analizzato prima), possa permettere ad un elettore «l’effettività della scelta e la libertà del voto» quando magari considera accettabili solo il secondo candidato e il terzo di tale lista. Dato che l’ordine di presentazione lo decidono i partiti il voto secondo me finisce per essere “indiretto” in violazione quindi degli art. 56 e 58 della Costituzione che impongono l’elezione «diretta» delle Assemblee((Non a caso la Cassazione, chiedendo la dichiarazione di incostituzionalità, aveva fatto esplicito riferimento agli articoli 56 e 58 incentrando l’argomentazione proprio sul fatto che qualunque lista bloccata rendesse il voto “indiretto”. La Corte costituzionale ha lasciato cadere quel riferimento incontrandosi sulla libertà del voto (previsto dall’art. 48) che viene così coartata. Solo alla fine del paragrafo vi è uno sfuggente riferimento al fatto che in tal modo il rapporto eletto-elettore non può costituirsi «correttamente e direttamente»)).

Curiosamente nella Corte costituzionale che ha inaugurato questa giurisprudenza nel 2014 c’era anche quel Mattarella che è oggi Presidente della Repubblica e nel 1994 fu ispiratore della legge elettorale che porta il suo nome. E questa decisione finisce per rendere ammissibili proprio leggi come la sua, che aveva appunto liste bloccate ma brevi. Sia chiaro, era solo un giudice su 15 e gli altri componenti siamo sicuri non fossero burattini. Ma possiamo immaginare che Mattarella abbia perorato la legittimità del principio al quale si era lui stesso ispirato.
Da questo traiamo una lezione ulteriore: che in uno Stato di diritto che si regge sulla divisione dei ruoli e dei poteri sarebbe opportuno smettere di eleggere alla Corte costituzionale (ex?) politici. Perché poi si trovano a giudicare sé stessi. Con buone probabilità di assoluzione.

Interessante, per la possibile incostituzionalità della riforma, è un che la Corte non accettò le liste lunghe anche alla luce degli imprevedibili risultati delle «candidature multiple». Le quali ci sono anche nella proposta Rosato! Diceva la Corte, in un breve passaggio della sentenza del 2014, che farsi eleggere in più circoscrizioni e sceglierne una «sulla base delle indicazioni del partito» frustra le aspettative dell’elettore. E proprio questo stanno dicendo gli oppositori di questa riforma. Insomma siamo ancora davanti a calcoli di partito fatti a prescindere dall’interesse nazionale, si millantano meccanismi per la famigerata stabilità, si dice di riconsegnare ai cittadini la scelta degli eletti, e poi si fa il contrario.

Nuovi ricorsi alla Corte costituzionale si prefigurano all’orizzonte.

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