La legge sul biotestamento: una buona legge. Ma incompleta.

di Gabriele Pazzaglia

Dopo anni di dibattiti, manifestazioni, proposte parlamentari, rinvii, è finalmente entrata in vigore, il 31 gennaio del 2018, la nuova legge sul testamento biologico (n. 219 del 2017). Una legge che rende effettivo quello che fino ad oggi era stato un principio a volte difficilmente esercitabile: l’autodeterminazione rispetto alle cure mediche.

La nuova normativa chiarisce che il «consenso libero e informato» è necessario affinché qualunque trattamento sanitario possa essere «iniziato o proseguito». Solo eccezionalmente, e con procedure il più possibile garantiste, vi si può prescindere, se così prevedono altre leggi: ad esempio nel caso di trattamento obbligatorio dei malati mentali, delle malattie contagiose, delle vaccinazioni etc((Relativamente alla legittimità dell’obbligo vaccinale cft Sent. Corte cost. 258/1994)).

Il principio del consenso è importantissimo nella società moderna. Grazie all’evoluzione della medicina, in Europa solo un terzo dei decessi è improvviso mentre i restanti sono dovuti a malattie croniche, come mostrato dalle statistiche recenti((Bertolissi S, Miccinesi G, Giusti F. Come si muore in Italia. Storia e risultati dello studio Senti-MELC. Rivista SIMG (Società Italiana di Medicina Generale) 2012; 2: 17-34.)). Proprio in questa stragrande maggioranza dei casi il paziente, che si trova davanti ad una malattia progressiva e inarrestabile è naturalmente posto davanti a possibili diverse scelte.

Per questo la legge ha stabilito che il paziente, ai fini del “consenso”, debba essere informato «in modo completo e aggiornato» sia sulla condizioni di salute che su «diagnosi, prognosi, benefici e rischi» degli accertamenti e dei trattamenti sanitari. Devono inoltre essere indicate possibili alternative e le conseguenze in caso di rifiuto. Nella relazione di cura che si instaura vi deve essere un concorso, cioè, tra la competenza del medico e l’autonomia decisionale del malato. Il quale può anche rifiutare le informazioni e indicare uno o più familiari, o una persona di fiducia, che le ricevano al posto suo.

Queste informazioni sono uno strumento per esercitare il diritto che è il vero cuore della legge: «rifiutare» qualsiasi accertamento o trattamento sanitario e anche «revocarne il consenso» quando sia stato in un primo momento espresso. Il medico è «tenuto a rispettare la volontà» del paziente ed è esente da responsabilità civile o penale per qualunque conseguenza. Si garantisce finalmente in modo chiaro ed incontrovertibile un diritto sul quale si è dibattuto per più di un decennio. Diritto che comprende la nutrizione e idratazione artificiale che ufficialmente questa legge considera trattamenti sanitari.

Tale diritto infatti esisteva già: i cittadini italiani hanno avuto in questi anni dalla loro parte la Costituzione della Repubblica che prevede che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» (articolo 32) . Ma gli ambienti più illiberali della nostra società si sono sempre opposti alla possibilità che pazienti, anche vigili e coscienti, potessero scegliere di “staccare la spina”. È stato il noto caso di Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare, impossibilitato a muovere qualunque muscolo eccetto gli occhi e la bocca che, per sopravvivere, aveva bisogno di un respiratore artificiale. Chiese più volte di interrompere le cure ottenendo vari rifiuti e suscitando il dibattito che vedeva i contrari – in prima linea gli ambienti clericali – sostenere la sacralità e irrinunciabilità della vita. La sua richiesta fu infine esaudita da un medico (dott. Riccio) che dopo una sedazione profonda staccò il respiratore.

Per capire il significato delle nuove norme è utile spiegare la vicenda processuale che seguì alla morte di Welby: il medico venne indagato per omicidio del consenziente ma il procedimento fu archiviato, cioè egli non fu mai processato, perché aveva agito «nell’adempimento di un dovere». Proprio perché era il suo medico aveva il dovere di seguire la volontà del paziente che proprio all’art. 32 della Costituzione aveva il diritto all’interruzione della terapia((GUP Roma Sent. 23 luglio 2007)).
Quel giudice diede ragione a Welby e al suo medico. Ma se si tiene conto che pochi mesi prima, Welby si era già rivolto alla magistratura, per un’autorizzazione preventiva a tale interrompere, e che gli fu negata da un altro giudice, ecco che si capisce la novità. Non si potrà più affermare, come fece quest’ultimo magistrato, che l’art. 32 è solo una norma di principio, che non dà un vero diritto esercitabile.
La stessa richiesta preventiva alla magistratura non sarà più necessaria dato che il lungo e pesante procedimento viene sostituito dal rapporto diretto paziente-medico: finalmente chiarezza e sburocratizzazione, a favore della volontà e libertà di ognuno.

Nonostante il rifiuto delle cure il malato avrà comunque garantita la terapia del dolore, prevista dalla legge 38/2010. È confermato l’approccio al quale si è giunti negli ultimi decenni, di vedere il dolore non solo come il sintomo di una malattia, ma come un problema a sé stante, che come tale deve essere trattato. E, se il paziente acconsente, può avere la sedazione palliativa profonda e continua.

La legge c’è, è ben scritta, deve essere applicata. È noto purtroppo che in alcuni ambienti ospedalieri, soprattutto confessionali, vi è una certa resistenza al contenimento del dolore, quasi fosse un’espiazione o un segnale irrinunciabile per la cura.

Tornando al testamento biologico, importantissime sono le «Disposizioni anticipate di trattamento» (articolo 4).
Sarà possibile esprimere oggi «il consenso o il rifiuto» a accertamenti, terapie o trattamenti sanitari in «previsione di un’eventuale futura incapacità».
È stata una scelta precisa quella di chiamare questo strumento proprio “disposizioni” e non semplici “dichiarazioni” per dimostrare che sono vincolanti (superando l’ambiguità di altre norme, come quella del Codice di Deontologia Medica che parla di “tenere conto” delle “dichiarazioni” del paziente).

Con la DAT può anche essere indicata una persona di fiducia che ci rappresenti con il medico e l’ospedale. Essa dovrà accettare la nomina, sottoscrivendo il documento che sarà consegnato nel Comune di residenza o, a scelta, alla ASL.
Il documento ha un contenuto libero, come il normale testamento. Potrà essere molto specifico e preciso oppure generico limitandosi a fissare dei principi: in quest’ultimo caso la parola passerà al fiduciario che, si suppone, sia la persona più in grado di spiegare la volontà del paziente.
Anche se le DAT sono vincolanti, il medico può ignorarle solo se sono «palesemente incongrue» o se nel frattempo si siano rese disponibili nuove terapie con «concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita». Ma sempre e solo con il consenso del fiduciario. Se i due non sono d’accordo deciderà un giudice.

Nel procedimento legislativo, sulle DAT, sono emerse opinioni contrastanti tra gli esperti sentiti in Parlamento. Mentre alcuni erano favorevoli all’approvazione della norma nel testo poi è diventato legge, altri hanno proposto varie modifiche che non sono state approvate: per esempio di renderle non vincolanti, dando più discrezionalità al medico; di farle controllare da un medico prima del deposito ufficiale; di stabilire una scadenza.
Il testo definitivo quindi stabilisce sì uno strumento di libertà, ma anche di responsabilità. Ogni cittadino deve essere sicuro di quello che scrive, informarsi (soprattutto dal proprio medico) e correggerle se cambia idea.

Questo sarà dunque un importante strumento per il rispetto della volontà del paziente incosciente. Prima della legge era già possibile ottenere l’interruzione delle cure: la Cassazione, nella nota vicenda Englaro, stabilì che ciò poteva avvenire quando la persona in stato vegetativo non aveva alcuna possibilità di «recupero della coscienza» e l’interruzione delle cure corrispondesse «all’idea stessa di dignità della persona» che aveva il paziente((Sent Cass, 16 ottobre 2007, n. 21748)). La novità consiste proprio nel non aver più bisogno di una preventiva autorizzazione del giudice, ciò di dover avviare un procedimento giudiziario magari lungo e faticoso. Tutto è rimesso alla volontà espressa nelle DAT e nella relazione medico-fiduciario.

Importante e precisa scelta è stata il non riconoscere alcun diritto all’obiezione di coscienza. La legge semplicemente non la prevede, nonostante tale mancanza sia stata sottolineata sia da alcuni medici sentiti durante la discussione, sia dai gruppi politici contrari alla legge.
Non c’è, non per una dimenticanza, ma perché il Parlamento non ha voluto riconoscerla dando maggiore valore al diritto dei pazienti.
Tanto è vero che la cattolica Ministra Lorenzin ha tentato di forzare questa situazione ufficialmente manifestando la sua volontà di «incontrare i rappresentanti delle strutture sanitarie private cattoliche» per accordarsi sull’applicazione concreta della legge e così «contemperare» i diversi bisogni affinché siano rispettate tanto le nuove disposizioni quanto «le altrettanto fondate esigenze di assicurare agli operatori sanitari il rispetto delle loro intime posizioni di coscienza». Una buffa situazione quella di un Ministro della Repubblica che, a fronte di un diritto ufficialmente garantito, si adopera per soddisfare l’opposta pretesa di negarlo((Cfr. La risposta all’interrogazione parlamentare del 20 dicembre 2017))).

Sono norme, queste, che l’Italia avrebbe potuto e dovuto approvare da almeno venti anni, dato che nel 1997 il Governo italiano aveva firmato la Convenzione di Oviedo. Essa prevede proprio i tre diritti che oggi trovano una precisa regolazione: nessun intervento sanitario senza consenso; la nomina di un rappresentante; la possibilità di mettere per iscritto il proprio volere sulle future terapie. Il Parlamento nel 2001 autorizzò la ratifica del Trattato, ma nessun Governo ha mai concluso la procedura, impegnando l’Italia sul piano internazionale con l’atto formale che è il suo deposito.

Come hanno votato i partiti

Il voto non ha riservato sorprese: hanno votato a favore il PD, il M5S, MDP e SEL (sì, ancora esiste) i quali hanno formato la massa critica di voti che ha permesso l’approvazione. Ad essi si sono uniti i Civici e innovatori (una costola di Scelta Civica oggi vicino a Parisi).
Le destre hanno votato contro senza troppa convinzione: dei 50 deputati di Forza Italia alla Camera solo tre hanno votato a favore, e 12 contrari, ma quasi due terzi dei deputati non hanno partecipato al voto. Percentuale simile a quella della Lega Nord. Qualche assente in meno tra i parlamentari di FdI che però, visto il corso delle cose hanno scelto di non fare troppo baccano.
Simile comportamento per i gruppuscoli di centro: Alleanza Popolare (quelli di Lupi) e gli ex Scelta civica e UDC che ruotano attorno a Casini e Tabacci sono andati in ordine sparso.
Strano epilogo il ripiegamento dei gruppi conservatori: qualche anno fa erigevano barricate, parlavano di “valori non negoziabili”, fino a tentare di far passare con decreto-legge l’imposizione dell’idratazione e alimentazione artificiale ad Eluana Englaro e oggi la bandiera della sacralità della vita cade senza fare troppo rumore.

L’eutanasia: il grande assente.

Vari opinionisti hanno affermato che una spinta definitiva verso l’approvazione di questa legge sia stata la morte in Svizzera di Dj Fabo e il relativo processo, tutt’ora in corso, a Marco Cappato. Questi lo ha accompagnato alla clinica dove ha ricevuto un medicinale che lo ha portato al coma profondo e quindi alla morte.
Ma paradossalmente casi come quello di Dj Fabo non saranno toccati dalla nuova legge. Questo è il grande – grave – limite della riforma.

Facciamo chiarezza: si parla spesso di eutanasia, ma questo concetto spesso è un calderone che contiene situazioni molto diverse.
Una cosa è la cosiddetta eutanasia passiva: staccare le macchine che tengono in vita un paziente che chiede o ha chiesto di morire. Questo non è più reato se è un medico ad interrompere le cure (perché come abbiamo visto è suo dovere farlo).
Ma resta punito qualunque altro comportamento.
Se qualunque persona, medico o no, somministrato un farmaco letale a chi lo richiede è omicidio del consenziente con la reclusione da sei a quindici anni (art. 579 codice penale).
Se invece il farmaco non è dato direttamente, ma solo messo a disposizione del paziente che da solo lo assume, è invece aiuto al suicidio, punito da cinque a dodici anni (art. 580).
Sono i casi di solito descritti come eutanasia attiva, diretta nel primo caso, indiretta nel secondo.

Cappato è imputato proprio per questo ultimo reato: la vicenda è nota ma alcuni particolari devono essere precisati. Dj Fabo era immobilizzato a seguito di un incidente stradale. Completamente insensibile dal collo in giù, cieco, si nutriva con la p.e.g. e respirava grazie ad un ventilatore inserito nella trachea del quale poteva fare a meno solo poche ore al giorno. Ma era mentalmente lucido.

Dopo pochi mesi dal definitivo stabilizzarsi della sua condizione, ha maturato la scelta di porre fine alla propria vita e, tramite la fidanzata, ha contattato Cappato che gli ha proposto due soluzioni: la via italiana, di sospensione delle cure con sedazione profonda, che dj Fabo ha rifiutato per il timore di una lunga agonia. Ha scelto invece la via svizzera, presso una struttura alla quale è stato accompagnato dallo stesso Cappato. Dopo alcuni accertamenti medici gli è stato fornito il farmaco, la cui iniezione lui stesso ha attivato con l’unico movimento che gli era possibile: mordendo uno stantuffo collegato alla siringa. Per le leggi svizzere è fondamentale che che l’atto definitivo sia compiuto autonomamente dal paziente.

Nonostante il Pubblico Ministero abbia chiesto l’archiviazione del procedimento affermando, tra l’altro, che esisterebbe proprio un diritto alla morte dignitosa quando vi siano vite «troppo dolorose per essere vissute», il Giudice dell’udienza preliminare (che è il filtro che ha l’ultima parola su chi debba essere processato) ha concluso diversamente: non c’è una norma che espressamente menzioni questo diritto e quindi il processo s’ha da fare.

Se Cappato fosse condannato ne conseguirebbe una situazione paradossale e ingiusta.
In Italia vi è la libertà di suicidarsi: sono passati secoli dalle pratiche di persecuzione contro il cadavere o il patrimonio della persona suicidatasi.
E se una persona varca il confine può legalmente ricevere aiuto per porre fine alla sua vita.
Ma se una persona ha un livello di incapacità talmente elevato che non può né suicidarsi da sola, né andare all’estero senza essere accompagnato, può solo chiedere che sia sedato in Italia, lasciandosi morire. Sopportando quindi una agonia evitabile.
Ma allora, perché davanti ad una scelta cosciente ed univoca non si può permettere ad un medico di aiutare un cittadino a non soffrire?
Queste norme, in questa situazione, sono solo una discriminazione nei confronti dei disabili gravi.

In conclusione, con il testamento biologico, la riforma si propone di tutelare il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione. E cerca un equilibrio con le norme che abbiamo descritto. Ma è necessario un altro passo in avanti stabilendo che l’obiettivo è tutelare la salute e la vita solo se considerato dignitoso dal paziente.