La morte di una Repubblica e l’umiliazione di un Presidente. La fine della Spagna Repubblicana.

di Marco Ottanelli

Il 18 luglio 1936 comincia la Guerra Civile Spagnola con il cosiddetto alzamiento dei generali Mola, Sanjurjo, Orgaz, Fanjul e quel Francisco Franco che poi diventò il capo ed il simbolo di una delle dittature più longeve del XX secolo; tre anni di conflitto atroce e spietato che causò centinaia di migliaia di morti e la devastazione del Paese. Nei mesi finali del 1939 la sconfitta dei repubblicani democratici((Proclamata la Repubblica spagnola nell’aprile del 1931, dopo la fuga del Re Alfonso XIII, il nuovo Governo di sinistra laica dovette affrontare le enormi secolari questioni che affliggevano e dilaniavano la società: la democratizzazione, la riforma agraria, la separazione dalla Chiesa dallo Stato, i diritti dei lavoratori, la grave crisi economica. Nel 1935 l’alleanza delle destre cattoliche e restauratrici vinse le elezioni, cercò di riportare indietro le lancette della Storia cancellando le riforme approvate. Nuove elezioni, nel 1936, furono vinte largamente dal Fronte Popolare di tutte le sinistre, questa volte comprese le estreme che fecero subito intravedere la possibilità di una vera rivoluzione di ispirazione sovietico, possibilità concretizzatasi con la rivolta delle Asturie. L’omicidio di Josè Calvo Sotelo, leader della opposizione monarchica, fu l’episodio che indusse i generali, già da mesi intenzionati a rovesciare la repubblica, ad agire. Immediatamente Hitler e Mussolini inviarono loro ingenti rinforzi.)) è ormai scontata. E quando uno Stato crolla, trascina con sé uomini, istituzioni, destini.

Dopo la caduta di Bilbao, con tutti i Paesi Baschi, e Valencia, la capitale provvisoria della Repubblica, divenuta indifendibile, il governo legittimo, che controlla appena la parte nord della Catalogna e Madrid, sotto assedio da tre anni, si trasferisce precipitosamente a Barcellona. Ma le armate di Franco aiutate massicciamente da armi, aviazione e truppe tedesche ed italiane, rompono il fronte nord. Uno dei protagonisti degli ultimi drammatici spasmi della eroica Repubblica fu il suo Presidente Manuel Azaña Diaz i cui diari inediti furono rubati dagli archivi di Ginevra negli anni ’50 e gelosamente conservati nella biblioteca privata di Franco fino al 1997. Ancora non tradotti in italiano abbiamo ottenuto una copia in spagnolo. La sua preziosa testimonianza ci guiderà in quei convulsi giorni.

21 Gennaio 1939: il Presidente deve arrangiarsi

Mentre le truppe franchiste danno l’ultimo assalto a Barcellona, Azaña, Presidente della Repubblica dal 1936, lascia la città, con la sua famiglia e quanti più membri del personale della presidenza possibile che lo seguono verso il nord, verso i Pirenei. Il Governo non ha predisposto alcun aiuto o piano di evacuazione, neanche per lo stesso Azaña, col quale i rapporti si sono fatti via via sempre più complessi, fino alla ostilità. Solo su drammatica insistenza di questi, viene reperito un treno, che, dopo trenta ore (!) riesce a raggiungere Figueres, a 140 km di distanza. Lì la comitiva si divide. Azaña passa la notte in un alloggiamento di fortuna, sotto i bombardamenti degli aerei italiani. Il solo che si preoccupa di lui è José Giral, ministro degli esteri che reperisce un’auto, scampata al caos di Barcellona, e conduce il Presidente e famiglia nel castello di Peralada, isolato nelle colline a nord di Figueres.

23 Gennaio 1939 e giorni seguenti: l’esodo

Azaña giunge nel pomeriggio a Peralada. Il castello nel quale trova rifugio appartiene ad un certo Mateu, che diventerà il primo sindaco franchista di Barcellona, ma gli è stato requisito da tempo. In esso, notoriamente, è custodita una notevole collezione di opere d’arte del facoltoso proprietario, e segretamente, è ammassata la gran parte del patrimonio del museo del Prado, portata fin lassù per evitare i bombardamenti che martirizzano Madrid. Azaña, che si ferma in quel luogo incredibile per più di otto giorni, non riesce a dormire, al pensiero che tutto possa andare distrutto. Ma angoscia ancora peggiore gli viene procurata dalla notizia che Barcellona è caduta definitivamente. Il Governo, che ha ostinatamente diffuso l’illusione che fosse possibile una lunga resistenza, fugge precipitosamente, lasciando in mano ai fascisti non solo armi e soldati, ma mezzi, documenti, archivi, persino la lista del personale di spionaggio inviato nella zona franchista, in Germania ed in Italia. Un ghiotto boccone per i vendicativi nazionalisti. Da tutta la regione, una folla dolente e terrorizzata si muove verso la frontiera con la Francia. Una moltitudine impazzita intasa tutte le strade ed i sentieri, si riversa su camminamenti e mulattiere, cercando la via verso il confine. Civili e soldati, donne e vecchi, funzionari, dirigenti e ufficiali, deputati e privati cittadini, formano un’onda di fuggitivi che, a piedi e con ogni sorta di veicolo, si incagliano, ammassandosi, verso il passo di frontiera de La Junquera. L’ingorgo umano si allunga per chilometri e chilometri. Disperazione, panico, saccheggi, un senso di disfatta. Alcune donne vengono travolte da torrenti in piena, e diversi bambini muoiono di freddo o calpestati, annota Azaña con dolore. I francesi fanno passare qualcuno, ma col contagocce, dopo che, nella settimana precedente, avevano permesso a 220 mila soldati dell’esercito repubblicano in rotta di attraversare la frontiera. Per chiuderli, poi, però, in durissimi campi di prigionia.

28 gennaio: arrendesi o resistere?

Giungendo sempre più gravi notizie da tutta la Spagna, Azaña convoca d’autorità il presidente del Consiglio, Juan Negrìn Lopez, ed il capo di stato maggiore, gen. Rojo per fare un necessario punto della situazione. I due giungono alle 23, e Azaña esprime la sua opinione: la guerra non è solo persa, come egli sostiene da tempo, ma siamo alla più completa, penosa e sanguinosa disfatta. Il governo ha il dovere di prenderne atto e chiedere una mediazione urgente a Francia, Gran Bretagna ed un terzo paese (Usa o Messico) per una pace, una resa dunque, che potesse salvare almeno le vite dei repubblicani e delle loro famiglie. Negrìn e Rojo annuiscono. Quest’ultimo poi rende nota la situazione militare. Non è solo una disfatta, dice, è un crudele tormento. Resiste solo Madrid, assediata cinicamente da un nemico che preferisce godersene l’agonia piuttosto che darle il colpo di grazia. L’unica soluzione, dice anche Rojo, è la resa. Il capo del governo Negrìn sembra convito: si impegna con Azaña nel sottoporre al governo l’urgente richiesta di tregua, di pace, di resa: sono in ballo decine di migliaia di vite umane.

Ma il giorno seguente, nonostante il generale ripeta davanti al consiglio dei ministri la sua tragica relazione, Negrìn non fa più alcun cenno alle misure concordate con Presidente, e anzi, tutto viene lasciato come prima: la guerra continua. Cosa sia cambiato nella sua mente in poche ore non è mai stato del tutto chiarito, forse le pressioni dei più intransigenti, o la paura di essere additato come traditore… “la mia facoltà di stupirmi non era ancora spenta, e rimasi stupefatto” scrive con dolore il Presidente.

Si salvi chi può

Nel frattempo, qualcuno (ma chi? Non ci fu modo di saperlo) aveva dato l’ordine di evacuazione di Girona. Il governo, che riteneva di poter controllare ben tre fronti di battaglia, non riesce neanche a controllare la città. Si crea un caos inimmaginabile, siamo, si legge nel diario di Azaña, al si salvi chi può. Si produce un nuovo affannoso esodo, che blocca di fatto ogni possibile via di fuga. Il groviglio di uomini e mezzi è tale che il ministro dell’interno in persona, ad un incrocio tenta, pistola alla mano, di regolare la circolazione. Altri ministri, perso ogni contatto con l’amministrazione, si avviano a piedi in direzione della Francia, tra la folla infreddolita. Martinez Barrio, Presidente della Camera, trova rifugio in una catapecchia indecente, assieme a Lluis Companys, il presidente semi-indipendentista della Generalitat Catalana. Purtroppo nella confusione c’è chi si approfitta della sua carica: alcuni alti dirigenti, fun

zionari e capi di partito passano la frontiera in comode ambulanze, nelle quali erano riusciti a stipare denari e beni pubblici; tutto questo mentre rugginosi camion scoperti arrancano sotto la pioggia di gennaio carichi di bambini degli orfanotrofi. Alcuni di questi camion giungono a Peralada. Il Presidente, la sua famiglia e i collaboratori li accolgono come possono, rifocillandoli con quel poco che rimane in dispensa, e facendoli riscaldare al fuoco per qualche ora. Ma la situazione è diventata insostenibile per tutti. L’unico che si preoccupa di Azaña e dei suoi è proprio Martinez Barrio, che preme con energia su Negrìn e sul governo perché al Presidente della Repubblica sia trovata una sistemazione più sicura.

Su questo punto, si apre una nuova, drammatica crisi: Negrìn inizialmente nega ad Azaña il diritto di allontanarsi ulteriormente dalla “sede” del Governo, e dice di essere in grado di garantirne la sicurezza. Ma, in un mortificante dietrofront, 36 ore dopo, ammette che né lui né il Governo sono in grado di proteggere la vita di nessuno. Addirittura giungono ad Azaña voci di ordini dati a quei battaglioni semisbandati che malamente presidiano i dintorni, di alzare bandiera bianca all’arrivo dei fascisti, senza opporre resistenza. Praticamente lo avrebbero lasciato cadere prigioniero. La sua reazione è rabbiosa: sa benissimo, lui, uno dei più odiati da Franco e dai ribelli, a quali insopportabili umiliazioni sarebbe stato sottoposto se catturato. “Piuttosto che arrendermi, prenderò io stesso le armi, con la mia famiglia ed i miei collaboratori. Anche se mi dovesse costare la vita! Ma non intendo essere trascinato per le strade di Alcalà [la sua cittadina natale] con una corda al collo!”, grida ai costernati rappresentati del governo.

Seguono ore concitate. Tramite l’interessamento di Barrio e del gen. Rojo, finalmente Azaña trova un rifugio vicino al confine, nel minuscolo paesino di La Vajol, dove sarebbe stato alloggiato con parte del personale di servizio in una casetta di due piani. Abbandonato il castello, Azaña ed il suo seguito giungono a La Vajol durante la notte su camionette messe a disposizione dall’esercito.

1° febbraio 1939: sessanta ombre per un simulacro

Quello stesso mercoledì 1° febbraio le Cortes (la Camera) in fuga celebrano la loro ultima sessione nel castello di Figueres, ma non è una fine eroica né commovente: prendono parte alla riunione sessanta deputati e deputate((Si ricorda che il suffragio femminile, attivo e passivo, era stato introdotto nella Spagna repubblicana fin dal 1931)) o poco più. Davanti a quella piccola assemblea più preoccupata della propria sorte che non di quella della nazione perduta, Negrìn pronuncia un discorso che, nel tentativo di galvanizzare quel simulacro di parlamento, assume una luce sinistra, quasi di lucida follia. Arriva persino a dire che “il miglior plebiscito a favore del governo è rappresentato dalla fuga generale della popolazione davanti agli invasori”. Dopodiché afferma che il Governo era sì disposto alla pace, ma a tre condizioni: garanzia che la Spagna conservasse la sua indipendenza (quindi ritiro immediato di italiani, tedeschi e truppe coloniali marocchine, che costituivano il grosso delle forze franchiste); garanzia che gli spagnoli potessero liberamente decidere il loro regime politico (quindi libere elezioni in un sistema democratico); garanzia che non ci fossero rappresaglie (quindi richiesta ai franchisti di fermare la macchina della vendetta e della repressione). Richieste ormai illusorie: le prime due erano state l’oggetto stesso della disputa durante la guerra e adesso si chiedeva che il vincitore vi rinunciasse. In quanto alla terza condizione, era ormai troppo tardi anche solo per implorarla. Senza un atto conclusivo ufficiale, le Cortes si sciolsero e, riferì un testimone, si assistette alla straordinaria scena finale di un deputato che, chiusa la sessione, tremando, si accostò ad un angolo della sala, e orinò. L’ultimo atto del Parlamento repubblicano.

2 febbraio: si prepara la fuga.

A La Vojol i collaboratori del Presidente Azaña esplorano le possibilità di un esilio senza rischi. Oltre la minuscola tenuta, il sentiero corre attraverso una montagna fitta di boschi e si biforca. Il tratto di destra, poco più di una mulattiera, raggiunge uno sperduto passo montano a poche centinaia di metri dalla frontiera francese. Quello sinistro discende in un avvallamento fino ad una certa miniera, nella quale erano stati depositati i quadri dei musei spagnoli che non avevano trovato rifugio altrove, e gioielli ed oggetti preziosi del valore di centinaia di milioni di pesetas di allora. Custodiva questo tesoro un drappello di Carabineros, ed un altro invece occupava La Vajol. Entrambi avrebbero dovuto lasciare il posto alla guardia presidenziale ma nei giorni seguenti giunsero, armati fino ai denti, dapprima un battaglione dell’esercito, e poi 50 membri delle truppe d’assalto. Nessuno, nemmeno i loro stessi comandanti, sapeva esattamente chi li avesse mandati lì e a far cosa. Ma era evidente che qualcuno aveva dato l’ordine di tenere il Presidente della Repubblica sotto controllo. Solo la sua propria fermezza e quella di Martinez Barrio furono in grado di farli allontanare e sostituire con la guardia presidenziale. Il sospetto che fossero stati inviati da Negrìn fu confermato quando questi chiese ad Azaña di trasferirsi con lui a Madrid per l’ultima (ormai disperata) resistenza. Lo aveva spinto a tale richiesta, quasi un ultimatim, Dolores Ibàrruri Gomez, la dirigente comunista meglio conosciuta come La Pasionaria.

Tra i politici che visitano Azaña in quei giorni c’è anche Companys, rifugiatosi in una casa colonica protetta dai Mossos de Esquadra, la polizia regionale catalana. La sua unica preoccupazione, in questo incontro semi ufficiale, è quella di accusare il Governo centrale della responsabilità della sconfitta; ma per il Presidente, come scriveva e documentava nei suoi diari fin dal 1936, ne era una delle cause principali proprio il nazionalismo catalano che, avendo condotto una sorta di guerra separata e dagli obiettivi particolaristi, aveva rotto il fronte militare e politico della Repubblica((Fra i tanti esempi possibili, oltre all’uso esclusivo delle armate catalane sul territorio locale, si ricorda la sciagurata impresa della “riconquista delle Baleari” (l’arcipelago era sotto occupazione italiana), che, intrapresa senza consultare il governo centrale, portò alla perdita di una quantità ingentissima di uomini, navi, armi, aerei e materiali.)). Ancora in quei momenti Companys lamentava la perdita di Barcellona, non quella della libertà di tutti.

Il Prado in esilio

Azaña incontrò anche un funzionario che gli riferì della possibilità di trasferire a Ginevra tutte le opere d’arte ammassate nei depositi vicino alla frontiera francese. Il Presidente già due anni prima aveva suggerito questa soluzione, ma essa era stata respinta con sdegno da coloro che, sicuri e convinti di vincere la guerra, ostentavano la volontà di non muovere neanche una tela dal suo posto; ebbene, ora, con le strade ostruite, i servizi interrotti, e sotto i bombardamenti, si tentava di arrangiare un trasferimento rischiosissimo di uno dei tesori del mondo. Nella sua ultima notte in Spagna, racconta Azaña, egli rimane sveglio a vedere i mezzi che da Peralada e dalla miniera de La Vajol, in lunga fila, si avviavano in Francia carichi delle memorie e dell’arte del suo Paese((Il patrimonio artistico e culturale spagnolo che passò le frontiere venne prontamente richiesto indietro dal governo franchista. Francia e Svizzera lo restituirono quasi immediatamente)). Le ultime colonne di camion furono raggiunte dai bombardamenti e rimasero bloccate in Spagna; alcune casse di dipinti, essendo le strade inutilizzabili, passarono in Francia attraverso sentieri di montagna, portati sulle spalle da alcuni Carabineros, con gran fatica e affanno ma con altrettante passione e dedizione. Dall’ambasciata spagnola di Parigi gli inviarono una ricompensa in denaro, che qualche intermediario intercettò e tenne per sé. Quei poveri uomini come unico premio per il loro servizio, furono spediti dai francesi nell’inferno di un campo di concentramento. Rischiarono la stessa sorte anche i soprintendenti artistici José Giner e Timoteo Perez Rubio, che guidarono il convoglio fino a Ginevra, dove giunsero con solo due franchi svizzeri in tasca. Sarebbero morti di fame, se non fossero stati aiutati, rifocillati ed ospitati dall’ambasciatore messicano Fabela a casa propria. Con loro, per mesi, accolse anche due bambini di Cordoba, il cui padre, un anarchico, era stato fucilato dai fascisti. Fuggiti con la madre, erano giunti vicino alla frontiera, ma in un bombardamento la loro comitiva era stata decimata, e anche la madre era morta. Il maggiore dei due, di soli otto anni, aveva preso il più piccino sulle spalle, e, attraverso i Pirenei, era giunto in Francia. I due fratellini avevano vagato per una settimana. Fabela li aveva trovati per caso, affamati, infreddoliti e spaventati, e li aveva presi con sé.

4 febbraio 1939, una giornata convulsa

Le colonne franchiste superano Figueres e si dirigono verso il confine. Il Governo ancora non ha predisposto alcun piano di evacuazione per il Presidente della Repubblica e per gli altri politici prigionieri in quel cul de sac.

Azaña trascorre le sue ultime ore in Spagna visitando un battaglione di soldati, uomini provati, stanchi, sconfitti, ma ancora con la volontà di resistere. Sanno che il loro destino è segnato. Salutano con affetto il Presidente e, al momento dell’addio, prorompono in grida di “Viva la Repubblica!” tra le lacrime.

Azaña per puro caso incontra l’ambasciatore francese che ha passato momentaneamente la frontiera: da giorni aveva cercato di mettersi in contatto con lui, ma il caos generale non lo aveva permesso. Lo prega caldamente di riferire a Parigi ciò che ha visto, disperazione e distruzione, e lo invita a far aprire la frontiera non solo lì, in Catalogna, ma lungo tutti i Pirenei. Lo prega anche di tentare di ottenere un intervento diplomatico franco-britannico che eviti altre stragi. Ma è troppo tardi: non se ne farà nulla.

Sul far della notte, Negrìn giunge a conferire con Azaña per cercare di convincerlo di nuovo ad andare con lui a Madrid, che ancora non è caduta, per continuare la guerra. Azaña rifiuta recisamente: ribadisce che resistere militarmente adesso è solo un modo per impedire una qualsiasi forma di clemenza da parte dei sanguinari vincitori. Altri lutti, distruzioni, stragi, vendette, bombardamenti, fucilazioni, ora che tutto, anche l’onore, è perduto? No. Lui, il Presidente, sarebbe andato in Francia, ed avrebbe cercato, fino all’ultimo, un modo di addivenire a condizioni meno spaventose di quelle che si prospettavano. Negrìn, gelido, tenta di fargli cambiare idea. Secondo lui, da un giorno all’altro Italia e Germania avrebbero scatenato la guerra contro Francia ed Inghilterra, e questo ribalterebbe le sorti del conflitto anche in Spagna.

Ormai tra i due la tensione e la diffidenza sono al massimo livello.

Negrìn, pur in disaccordo, invita dunque Azaña a compiere il trasferimento in Francia immediatamente. Egli stesso lo avrebbe accompagnato con il ministro Giral e con Barrio come rappresentati istituzionali, nel tentativo di preservare quel po’ di formalità di Stato residua. Ma annuncia che, come poi farà in un comunicato congiunto con Dolores Ibarruri qualche settimana dopo, additerà al popolo spagnolo Azaña come colpevole di “defezione”.

Cominciano i mesti rituali d’addio. Azaña scioglie la Guardia Presidenziale, o quel che ne rimaneva, dando loro la libertà da ogni dovere ed incarico dalle ore 7 del mattino dopo. Anche il personale ed i funzionari della Presidenza della Repubblica sono esonerati dai loro compiti, ed invitati a mettersi in salvo con le famiglie. Non tutti ci sarebbero riusciti.

Le auto ed i mezzi presidenziali, con insegne e permessi che ne avrebbero dovuto assicurare la intangibilità, partono immediatamente, sì, ma piene di bambini, tutti quelli che fu possibile caricarvi.

Domenica 5 febbraio 1939. La fine prima della fine.

Ore 6 del mattino. Il piccolo convoglio (una ventina di persone) che doveva portare Azaña in Francia si muove su auto della polizia, le uniche che possono affrontare la mulattiera che li aspetta. Martinez Barrio non trova di meglio che una utilitaria. Companys e gli altri capi del catalanismo in rotta, li avrebbero seguiti più tardi, per evitare un movimento tale da allertare i bombardieri.

Il breve tragitto tra il paesino spagnolo di La Vajol e quello francese di Las Illas, si svolge nel gelo e nella solitudine di un’avvilente alba d’inverno, e più grottesco dei modi.

Il sentiero fangoso in forte pendenza, viene affrontato tra sobbalzi e sbandamenti. Quasi in cima alla salita la piccola auto di Barrio, imprudentemente posta in cima alla colonna, si guasta e si impantana bloccando le altre auto. Scendono militari, alte cariche, donne giovani e anziane per dare una mano in qualche maniera. Tra il fango, nel freddo di febbraio, il loro fiato affannato si condensa sui vetri della utilitaria. Anche sua eccellenza Negrìn, capo del governo, impreca, si agita, batte sul cofano con gli abiti inzaccherati mentre dà fondo a tutte le sue energie per spingere quell’auto perlomeno qualche metro più avanti. Ma non c’è modo di spostarla.

Tutti devono proseguire a piedi, trascinandosi i bagagli. Il resto del percorso, in discesa e coperto da un velo di ghiaccio, non è meno disagevole. Molti degli appiedati cadono, ruzzolando su sassi e scivolosi pendii. Ruzzola anche sua eccellenza il ministro Giral, ruzzola anche il colonnello dell’aviazione Riaño, ruzzola anche sua eccellenza il presidente de Las Cortes, Martinez Barrio. Per sua fortuna e, come dice nelle sue memorie, per il suo allenamento di gran camminatore, uno dei pochi a non cadere è proprio Azaña, salvando così involontariamente la dignità della Repubblica quando, finalmente, giunsero tutti a Las Illas e furono ricevuti dalle autorità francesi: il Presidente in carica, perlomeno, non era coperto di mota.

A Las Illas il gruppo si separò: Negrìn tornò in Spagna, gli altri si dispersero verso varie località. Azaña si diresse a Perpignan, cittadina che, dopo gli anni dell’oscuramento, delle ristrettezze e delle distruzioni di Valencia e Barcellona gli parve, scrive, “una grande capitale”, e da lì, di tappa in tappa, arrivò fino ad una piccola residenza in Savoia, vicinissima alla Svizzera. Nel frattempo, la gendarmeria francese, utilizzando sopratutto ascari senegalesi, avevano cominciato una vera caccia ai profughi spagnoli e a rinchiuderli in crudeli e inumani campi di concentramento (non meno di 500 mila di essi avevano cercato rifugio e salvezza in Francia).

La sanguinaria e sadica dittatura clericofascista di Francisco Franco stava per trionfare definitivamente, grazie alle armi di Hitler e Mussolini, a causa della interruzione di ogni aiuto sovietico e per il panico delle democrazie occidentali, incapaci di reagire alla montante ferocia del nazismo. Per la Spagna, l’Europa ed il Mondo, si prospettavano ancora anni di orrore.

La fine dopo la fine. Le ultime tragedie, le ultime umiliazioni

Non possiamo non raccontare cosa accadde ai protagonisti del nostro escursus storico.

La Repubblica Spagnola: il 6 febbraio le forze repubblicane in Catalogna si sfaldano e arrendono definitivamente. Il 27 dello stesso mese, Francia e Gran Bretagna riconoscono ufficialmente il nuovo regime franchista. A Madrid i comunisti si impongono all’interno della compagine ancora formalmente guidata da Negrìn, e proclamano la resistenza ad oltranza. Il giorno dopo, 28 febbraio, Azaña rassegna le dimissioni da Presidente della Repubblica.

4 marzo, Madrid: Nella città affamata e dilaniata dalle bombe, il colonnello Casado, che pure combatte contro Franco fin dal 1936, si ribella al governo ed al comando centrale per costringere i resistenti alla resa: è quello che passa alla storia come il “Golpe di Casado”. Al suo fianco, si schiera una parte del partito socialista “antinegrìnista”. Alcuni ufficiali e componenti delle brigate comuniste non accettano il cessate il fuoco. Per una settimana si sviluppa una guerra civile dentro la guerra civile. Casado è spietato e punisce duramente, anche con la morte, i militari che gli si sono opposti-. Il 12 marzo il governo fugge in Francia con i pochi aerei rimasti. Il 28 marzo, i fascisti entrano a Madrid, e, tradendo le promesse fatte a Casado, si abbandonano a violente rappresaglie. Nei giorni seguenti si arrendono anche le ultime sacche di resistenza ad Almeria, Valencia e Alicante. Il 1° aprile 1939, Franco annuncia la fine delle ostilità. Ma da quel momento, cominciano le fucilazioni e gli arresti di massa. Un nuovo, silenzioso, bagno di sangue. Casado viene mandato in esilio. Tornato in Spagna negli anni ’60, morirà solo e dimenticato nel 1968.

Juan Negrìn Lopez: Rifugiatosi a Parigi, poi a Londra, mantenne la carica di Presidente del Consiglio del Governo Repubblicano in esilio fino al 1945. Entrato in conflitto con altri esuli, che lo accuseranno per un decennio di essersi appropriato di parte del tesoro di stato, si ritirò da incarichi ufficiali ma tentò di far sempre sentire la sua voce anche dopo la guerra, esprimendosi a favore dell’inclusione della Spagna nel Piano Marchall. Tornato a Parigi nel 1947, vi morì di infarto nel 1956.

Josè Giral: Alle dimissioni di Negrìn, assunse la carica di Presidente del Governo Repubblicano in esilio per i due anni seguenti. Rifugiatosi in Messico, vi insegnò chimica fino alla sua morte, nel 1962.

Diego Martìnez Barrio: Dopo una permanenza in Francia, durante la quale assunse il ruolo di Presidente ad interim della Repubblica al momento delle dimissioni di Azaña, si trasferì a Cuba e di lì in Messico, dove visse in assoluta miseria fino a quanto non ottenne una piccola rendita da parte del comitato di sostegno dei rifugiati. Tornato a Parigi alla fine della II Guerra Mondiale, venne eletto ufficialmente Presidente della Repubblica Spagnola in esilio, ma essa fu riconosciuta solo da Messico e Yugoslavia. Le difficoltà economiche senza fine, il senso di abbandono e tradimento da parte degli Alleati (che non solo non abbatterono Franco, ma lo coinvolsero nel fronte anti-sovietico), la salute precaria lo portarono ad una profonda depressione. Morì di infarto nel gennaio 1962.

Lluis Companys: Fuggito in Francia, venne catturato ad agosto del 1940 dalla Gestapo nella Parigi occupata. Estradato immediatamente in Spagna, fu sommariamente processato a Madrid, e trasferito a Barcellona, nel famigerato carcere di Motnjuic. Alle ore 6,50 del 15 ottobre 1940, venne fucilato. Le sue ultime parole, in catalano, furono: «Assassineu un home honrat. Per Catalunya!! (State assassinando un uomo onesto. Viva la Catalogna!!)

Dolores Ibàrruri Gomez (la Pasionaria):Tentò di opporsi alla capitolazione di Madrid, e, alla caduta della città, andò in esilio in Unione Sovietica, diventando non solo la segretaria del Partito Comunista Spagnolo, ma una dirigente di primo piano dell’internazionale comunista. Suo figlio morì combattendo contro i nazisti a Stalingrado. Nel 1960 lasciò la segreteria, e, dopo la morte di Franco, tornò in Spagna nel 1977, dove venne anche eletta al parlamento. Molto anziana, esercitò una funzione più che altro simbolica. Morì a Madrid nel 1989, all’età di 94 anni.

Manuel Azaña Diaz: ed infine, ecco quale fu il destino dell’uomo che ci ha lasciato la sua testimonianza diretta, il Presidente Azaña. Dimessosi dalla sua carica non appena appreso che Francia e Spagna avevano riconosciuto il regime di Franco, si rinchiuse in una sorta di esilio nell’esilio nella sua casetta al confine svizzero. Amareggiato, malato, sempre più solo, fu costretto ancora una volta a fuggire al momento dell’invasione tedesca, e trovò rifugio nella zona libera di Vichy, dove però venne tenuto sotto stretta sorveglianza dai gendarmi della Francia del maresciallo Petain e da emissari franchisti. Per proteggerlo dalla Gestapo, viene accolto dall’ambasciatore del Messico in alcune residenze di proprietà di quella sede diplomatica nella cittadina di Montauban. Debilitato nel corpo e nell’animo, distrutto dalle notizie di arresti dei suoi familiari, Manuel Azaña muore il 3 novembre del 1940.

Per espresso ordine di Petain, al funerale gli sono negati gli onori dovuti ai capi di stato. Le autorità di Vichy autorizzano solo che la sua bara sia avvolta nella bandiera spagnola, ma impongono che essa sia quella franchista, non quella repubblicana. Per evitargli questa ultima postuma umiliazione, l’ambasciatore messicano la fa avvolgere in quella del suo Paese. Egli dirà, rivolto al prefetto francese: “lo coprirà la bandiera del Messico. Per noi, sarà un privilegio. Per i repubblicani una speranza, e per voi tutti, una dolorosa lezione”.

 

Lascia un commento