Conflitto a Gaza. Le responsabilità delle parti in causa: Israele, Hamas, comunità internazionale

di Marco Ottanelli

Tre premesse

– La prima: ogni volta che si parla del conflitto israeliano-paestinese si solleva un vespaio. Conto che succeda anche stavolta. Per questo articolo, riceverò non solo lodi e critiche, come capita sempre, ma benedizioni e maledizioni. Perché quello israeliano-paestinese non afferisce più alla sfera appunto dei conflitti, ma a quella dello scontro ideologico, religioso, identitario. Se scrivessi del conflitto tra Etiopia ed Eritrea, o della guerra religioso-tribale che insanguina, con molte e molte più vittime, l’Africa equatoriale, o se ri-scrivessi del genocidio siriano, so per certo che gli animi non si infiammerebbero. In questo caso, sì. Ed è per questo che non cercherò di descrivere quanto accade sotto la luce della colpa o della ragione, del torto o della liceità, ma sotto la luce della responsabilità, perché essa non attiene solo al presente, non è solo una scelta di comportamenti che si esauriscono ora, adesso, nel contingente, ma perché essa si proietta, in un concatenarsi di riflessi e conseguenze, verso un futuro ulteriore alla nostra stessa percezione. Per me, nato e cresciuto e maturato in questi decenni dove il conflitto in quelle terre non ha mai smesso di invilupparsi su sé stesso, non è più possibile capire chi abbia torto e chi ragione, ma so perfettamente che è di tutti la responsabilità di quanto accade.

– La seconda: la Storia è fondamentale, e ne attingo a piene mani, ma il percorso inverso con la macchina del tempo da oggi ai tempi di Sansone alla ricerca di “chi ha cominciato”, no, non lo percorrerò.

– La terza: questo mio lungo pezzo è la rielaborazione, aggiornata e arricchita, di tre articoli del 2009. Onestà vuole che lo dica, anche se, e lo noto con rammarico, essi contenevano dati e notizie che sono perfettamente sovrapponibili a quanto accade oggi.

LE RESPONSABILITÀ DI ISRAELE

Il Trattato delle Nazioni Unite vieta (seppur con alcune eccezioni) l’uso della forza. All’art. 2, comma 3 e 4, si legge: I Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo. I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.

L’azione di Israele conto Hamas e la Palestina, che, ricordiamolo, ha un suo parlamento, un suo governo, ed è stata ammessa come “osservatore” alla Nazioni Unite nel 2012, ed è quindi una entità internazionalmente riconosciuta, vìola palesemente questi ed altri dettami internazionali, così come li violò in occasione dell’attacco contro Hezbollah e il Libano, nel 2006, e nella cosiddetta “operazione Piombo Fuso” del 2009. Il copione si ripete oggi, nel 2014.

Spesso i diplomatici israeliani giustificano le azioni a Gaza e in Cisgiordania ricordando come per loro la Palestina non esista in quanto Stato indipendente (Israele non ha accettato il voto dell’ONU che ha accolto la Palestina come osservatore, lo rigetta e respinge e considera nullo), e dunque ciò non sviluppi, tecnicamente, alcuna controversia internazionale. Si tratterebbe invece di una questione che investe territori direttamente o indirettamente sotto controllo di Gerusalemme (e negare questo sarebbe talmente contrario alla realtà che non ci prova neanche la destra estrema ebraica). Ma una simile situazione è altresì contemplata dalla carta ONU. Essa la regola, all’art. 73, in questi termini:

I Membri delle Nazioni Unite, i quali abbiano od assumano la responsabilità dell’amministrazione di territori la cui popolazione non abbia ancora raggiunto una piena autonomia riconoscono il principio che gli interessi degli abitanti di tali territori sono preminenti, ed accettano come sacra missione l’obbligo di promuovere al massimo, nell’ambito del sistema di pace e di sicurezza internazionale istituito dal presente Statuto, il benessere degli abitanti di tali territori, e, a tal fine, l’obbligo: a. di assicurare, con il dovuto rispetto per la cultura delle popolazioni interessate, il loro progresso politico, economico, sociale ed educativo, il loro giusto trattamento e la loro protezione contro gli abusi; b. di sviluppare l’autogoverno delle popolazioni, di prendere in debita considerazione le aspirazioni politiche e di assisterle nel progressivo sviluppo delle loro libere istituzioni politiche, in armonia con le circostanze particolari di ogni territorio e delle sue popolazioni, e del loro diverso grado di sviluppo; c. di rinsaldare la pace e la sicurezza internazionale (…).

Anche in questo caso, la violazione delle regole legalitarie internazionali è palese e manifesta.

Non regge e non può reggere neanche la tesi di una azione definibile come mera operazione di polizia contro dei terroristi, perché intanto, essa non lo è (si muove l’esercito, non la polizia), poi perché, ammesso per assurdo che lo fosse, ogni trattato, ogni norma nazionale ed internazionale, rigettano con veemenza il concetto di responsabilità collettiva del reato, ed affermano, con altrettanta forza il principio della responsabilità personale penale. Nel corso della storia, questi principi si sono affermati con molto ritardo, ma oggi essi sono inviolabili. Per capire la portata di questa affermazione, basti pensare, a titolo di esempio, alla “crisi di Corfù”: nel 1923, a seguito dell’uccisione di alcuni componenti di una missione geografico-militare italiana al confine tra Grecia e Albania, l’Italia bombardò e poi occupò l’isola greca di Corfù, causando una ventina di morti. Nessuno di quelle povere vittime, ovviamente, era personalmente responsabile degli omicidi, ma, in quanto greci (in realtà, tra i civili uccisi, c’erano anche alcuni profughi armeni), ne dovettero pagare le conseguenze. Oggi nessuno di noi tollererebbe questo comportamento da parte di una nazione civile. Perché Israele invece può permettersi di uccidere migliaia di innocenti? E laddove si sia individuata una responsabilità personale di un singolo, egli avrebbe parimenti diritto ad un processo ed un trattamento giusto e garantito (combinato degli art. 1, 2, 3, 6, 7, 8, 9, 10, 11 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo).

Qualunque cosa dunque Israele stia facendo (guerra ad un altro Stato; repressione in un territorio occupato; operazione di polizia), lo sta facendo violando le regole internazionali ed umanitarie.

In ambito internazionale, i “caschi blu” dell’Onu rappresentano non solo una polizia di fatto e un punto di riferimento superpartes, ma anche, e forse soprattutto, sono la concreta rappresentanza, la presenza dell’Onu e dei suoi membri (di TUTTI i suoi membri) in quel dato territorio. Essi quindi rappresentano tutte le nazioni ed i popoli del mondo e poi anche l’insieme degli stessi. Israele non si è mai fatta scrupoli di attaccare gli obiettivi delle Nazioni Unite. Nel 2009 gli israeliani, a Gaza, bombardano tre scuole gestite dall’Onu, dove avevano trovato rifugio centinaia di civili. Nonostante i tre istituti fossero stati segnalati e identificati come obiettivi internazionali, neutrali, essi furono attaccati e distrutti. 30 morti circa il bilancio. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, definì inaccettabili l’azione, e le giustificazioni dell’esercito occupante.
Il copione si è ripetuto in questi giorni del 2014, con due scuole-rifugio ONU attaccate e distrutte, più di trenta vittime, centinaia di feriti, e Ban Ki-moon che ripete: “inaccettabile”.

Ma accadde anche altro. Nel 2006, durante l’attacco al Libano, un carro armato israeliano attaccò una postazione ONU, danneggiandola gravemente, e ferendo quattro caschi blu ghanesi. Il giorno dopo, un elicottero ed un missile terra-terra colpirono un’altra postazione, uccidendo quattro caschi blu (un austriaco, un cinese, un canadese ed un finlandese).

Ci sono poi gli attacchi a tutte le strutture di organizzazioni umanitarie: nei giorni scorsi, sono state colpite due ambulanze della Mezzaluna Rossa, ed uccisi tre suoi operatori. Nel 2009 capitò a strutture europee, quanto tre cliniche mobili dell’organizzazione umanitaria danese Folkekirkense Noedhjaelp DanChurchAid a Gaza furono bombardate e distrutte dall’esercito israeliano.

Per quanto talvolta questo sia accaduto in altre zone del mondo (Africa, Asia, Balcani), ciò è sempre stato fatto da milizie ribelli, eserciti non regolari, bande più o meno disorganizzate, terroristi dichiarati o da oscuri raggruppamenti paramilitari. Mai, mai, mai nessun altro Paese membro delle Nazioni Unite ha pubblicamente e deliberatamente attaccato le infrastrutture dell’Onu e ferito ed ucciso i suoi rappresentanti.

Abbiamo detto che Israele viola le regole internazionali. Come mai non viene dunque sanzionato per questo dagli organi rappresentativi dell’Onu: l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza? In realtà, Entrambi questi organi hanno emanato, nel corso della storia, decine, se non centinaia, di raccomandazioni — la prima, la A.G. — e di risoluzioni — il secondo, il C.d.S. — nei confronti di Israele, che Israele non ha mai rispettato. Ha quindi “violato le leggi”, e “ignorato le sanzioni”, infischiandosene di quanto intimatogli dalla comunità internazionale.

In particolare, sulle risoluzioni (che sono giuridicamente molto più incisive e importanti), si è talvolta aperto un dibattito dottrinale, da parte dei difensori del diritto di Israele di disattenderle, in quanto esse sarebbero state emanate in base del Capitolo 6 (che è più indicativo, e meno prescrittivo) piuttosto che in base al Capitolo 7 (decisamente riferito a casi più gravi). La difesa è capziosa fino ad essere disonesta, perché, ogniqualvolta il C.d.S. abbia tentato di far approvare una risoluzione verso Israele derivata dal Cap. 7 , gli Stati Uniti d’America, membro permanente, hanno sistematicamente opposto il veto (e spesso anche riguardo quelle del Cap. 6), decine e decine di volte, vanificando così tutto il potere diplomatico ed esecutivo dell’Onu. Tutto agli atti, tutto verificabile.

La conclusione è che, a prescindere dai concetti di “torto” o “ragione”, che nel Medioriente affondano le loro radici in odi antichi, lo stato di Israele si è posto, da decenni, in una condizione di illegalità permanente ed una posizione di rifiuto delle regole.

Evitiamo, in questo articolo, di far riferimento ad altre violazioni delle regole umanitarie e alle convenzioni di guerra (basti pensare agli obiettivi di sussistenza colpiti, all’uso delle bombe a grappolo ed al rifiuto di fornire alle compagnie di sminamento i documenti sui bombardamenti).

LE RESPONSABILITÀ DI HAMAS

Hamas, forse non tutti lo sanno, è un partito politico. La parola hamas è l’acronimo di Harakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, che si può tradurre con Movimento di Resistenza Islamico. Questa premessa è importante, perché in occidente Hamas viene sempre ricordata come “fazione”, “gruppo paramilitare”, “milizia” e talvolta “gruppo terroristico”. Pur possedendo, in effetti, una sorta di esercito proprio, Hamas è invece uno dei partiti che ha concorso, nel 2006, alle libere elezioni del popolo palestinese, libere quanto possono esserlo in un territorio occupato ed in stato d’assedio permanente. Vinse, con circa il 46% dei suffragi, proprio il Movimento di Resistenza Islamico. Nonostante che Solana, a nome della UE, dichiarasse che il voto si era svolto “democraticamente e pacificamente”, Israele, USA e UE stessa imposero delle sanzioni economiche. Inoltre Al Fatah (l’altro partito palestinese che deriva direttamente dall’OLP di Arafat) non ha mai accettato la sconfitta e la impostazione politica del concorrente. Ciò, in un crescendo di tensioni e di conflitti, ha portato ad una serie di atti illegittimi e golpisti tanto di una parte quanto dell’altra, che sono sfociati in una vera e propria guerra civile, con centinaia di vittime, e che si è conclusa (dopo assalti a luoghi istituzionali e alle reciproche milizie) con una spaccatura. Nonostante l’occidente appoggiasse Fatah sotto ogni punto di vista, è a questa ultima componente che, perlomeno militarmente, vanno attribuiti i primi attacchi, compreso quello al parlamento di Ramallah.

In ogni caso, la guerra civile ha portato, per anni, ad una divisione delle due enclave di Gaza e della Cisgiordania, la prima controllata da Hamas, e la seconda da Fatah. La comunità internazionale ha sottoposto Gaza al più stretto isolamento, e Israele ad un vero e proprio assedio, impedendo persino il passaggio di generi di prima necessità.

Cosa chiede, cosa teme, cosa pretende l’occidente da parte dei dirigenti di Hamas? In primo luogo, il riconoscimento di Israele. Un riconoscimento esplicito, diretto, senza equivoci. Hamas non ha mai neanche fatto un solo passo diplomatico e politico verso il dialogo (anche conflittuale, anche violento, anche solo rivendicativo) con lo Stato ed il Governo di Israele, che, e questa è una nozione base del diritto internazionale, esiste, è a pieno titolo nell’ONU ed è — ovviamente — una parte in causa. La pretesa di “innalzare la bandiera di Allah su ogni metro quadrato della terra di Palestina” non è, alla luce del diritto internazionale, affatto temperata dalla affermazione che “all’ombra dell’Islam, è possibile per i seguaci di tutte le religioni coesistere nella sicurezza: sicurezza per le loro vite, le loro proprietà e i loro diritti.” (come si legge nello statuto di Hamas). I diritti individuali (preziosissimi) sono comunque altra cosa rispetto ai diritti delle Nazioni. E Hamas, se non riconosce anche i secondi, si mantiene nella condizione di illegittimità diplomatica nella quale è confinata. Le ultime timidissime prese di posizione ambiguamente meno severe, non sono abbastanza.

NB: Un altro aspetto che spaventa molto i politici ed i commentatori occidentali (e anche me, se mi è concessa una nota personale), è il carattere di integralismo religioso di Hamas. L’art. 1 del suo statuto, tanto per rimanere nel soft, recita: La base del Movimento di Resistenza Islamico è l’islam. Dall’islam deriva le sue idee e i suoi precetti fondamentali, nonché la visione della vita, dell’universo e dell’umanità; e giudica tutte le sue azioni secondo l’islam, ed è ispirato dall’islam a correggere i suoi errori. Questo non implica però alcunché sia nel campo del diritto internazionale (le teocrazie sono lecite; Arabia, Iran, Vaticano, lo sono in senso stretto. Oman e Libia in senso indiretto, avendo assunto come Costituzione il Corano) sia nel campo del diritto interno (moltissimi stati a prevalenza musulmana applicano come legge e come codice la sharia ), nel quale ambito in ogni caso ogni Stato ha, secondo la Carta dell’Onu, ampio margine.

La prima responsabilità di Hamas è quindi quella di aver negato dignità di interlocutore ad Israele, disconoscendo persino tutti i trattati e gli accordi precedentemente sottoscritti da Fatah (e violando così una regola fondamentale, pacta sunt servanda). La seconda è quella di aver scelto, come metodo di lotta e/o di rivolta, la via del lancio di missili verso obiettivi civili israeliani.
Non importa se questo è un metodo approvato o meno dalla maggioranza degli abitanti di Gaza; non importa se questo è un metodo dovuto alla disperazione o alla esasperazione; non importa se questo è un metodo di risposta a precedenti provocazioni: lanciare missili è un atto terroristico a tutti gli effetti. Hamas lo sa, e sa anche che le sue milizie non sono un esercito di uno stato indipendente o un corpo riconosciuto come belligerante, e che ciò quindi le pone fuori dai trattati di Ginevra e da tutte le altre garanzie di guerra. Non si può dunque opporre giuridicamente alle rappresaglie israeliane. Non ne ha il diritto, non può accampare questa pretesa.

Persino la recente firma della Palestina accolta dalla Svizzera ai trattati di Ginevra (la Svizzera ne è il custode, si può dire) non muta alcunché, sia perché Israele ed altri stati ne disconoscono la validità e perché, lo si ripete, le milizie di Hamas non sono certo l’esercito regolare palestinese, ma bande armate. Perché si tollera che un partito, o un gruppo terroristico, abbia una sua milizia? Chi lo dirige, chi vi aderisce, chi lo sostiene, è complice di una illegalità inammissibile che vìola non solo le leggi internazionali, ma anche la sovranità della Palestina stessa. E come tutti i gruppi paramilitari, questa milizia conduce non una guerra, non una resistenza, ma una campagna terroristica generalizzata.

Per dire le cose in altre e più brutali parole: Hamas non riesce, non è capace, non può, (e sa perfettamente di non potere) colpire obiettivi militari e strategici del nemico, né è capace di uccidere soldati israeliani, né con lanci di razzi, né con attentati, né con attacchi suicidi. Forse qualche possibilità la ha in combattimento. Lo sa, e agisce, per scelta, attaccando indiscriminatamente obiettivi civili. Ed aspetta che i soldati entrino a Gaza per ucciderli.

Hamas, poi, è dal giugno scorso componente di un governo di unità nazionale assieme con gli ex nemici di Fatha. Una novità importantissima che aumenta, e non diminuisce, le responsabilità di questo gruppo politico. Anzi, a questo punto è una responsabilità governativa e statale della intera Palestina che non può più nascondersi dietro la foglia di fico delle “schegge impazzite”.

Fa parte poi della sfera etica — e non di quella del diritto — la decisione politica dei dirigenti palestinesi di esporre la propria popolazione civile alla (inevitabile ed inevitabilmente feroce) rappresaglia israeliana. Sparare razzi da postazioni collocate tra le abitazioni, e arroccarsi fra le stesse, iniziare un impari confronto militare con l’unica arma deterrente delle inevitabili, ed inevitabilmente altissime, perdite di vite innocenti, è, lo ripeto, una scelta politica che esula dai concetti di legalità e di opportunità, per ricadere in quelli, intesi nel senso più alto dei termini, di responsabilità e di consapevolezza delle proprie azioni tanto nelle immediate quanto nelle più lontane (nel tempo e nelle intenzioni) conseguenze. Hamas sa perfettamente che, ad ogni suo attacco, segue una reazione violentissima, e sa anche che non ha alcuna possibilità di “vincere”. Sceglie di “perdere”

LE RESPONSABILITÀ DELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE

Che la tragedia mediorientale sia dovuta ad un errore, anzi, ad una serie imperdonabile di errori, è dimostrato da come nacque Israele. Innegabile e solida è la legittimità della sua costituzione, in quanto seguita alla risoluzione dell’ONU n. 181 del 30 novembre 1947.

Quella risoluzione, votata dall’Assemblea Generale, è stata però l’origine di tutte le future incomprensioni, disgrazie e guerre nella regione.

L’Onu era appena nata, e comprendeva solo una piccola parte del mondo, essendo, all’epoca, una gran parte dei Paesi oggi esistenti colonie, o essendone altri esclusi per questioni politiche (Italia, Germania, Giappone e tutti i loro alleati non erano stati ammessi). Tra i membri di allora, 33 Paesi votarono a favore della spartizione dell’ex mandato britannico tra Israele e Palestina. Tra questi, determinanti e decisivi, Stati Uniti, Francia e Unione Sovietica (più gli stati-fantoccio di Ucraina e Bielorussia). 13 Stati votarono contro, ed erano gli Stati parti in causa, ovvero tutti i Paesi arabi confinanti con la Palestina, ai quali significativamente si aggiunsero l’Arabia, l’Iraq, l’Iran, la Turchia, il Pakistan e persino Grecia e India. Ben 10 si astennero (tra i quali Messico, Argentina e due vincitori sul campo della seconda guerra mondiale, l’Etiopia e, soprattutto, la Cina ancora non comunista). Ma che l’accordo raggiunto fosse pessimo ed ingestibile lo dimostrò esplicitamente la dichiarazione di astensione dal voto del Regno Unito, la potenza mandataria che aveva esercitato il dominio sulla regione dal 1919 al 1947.

Il governo britannico, clamorosamente, non approvò il piano redatto dall’Unscop (il comitato che aveva proposto e predisposto la spartizione) e si sfilò dalla responsabilità della risoluzione, non votando contro solo per il fortissimo legame che già lo univa agli USA.

Traumatizzati dagli scontri tra arabi e coloni ebrei, e dal sanguinario terrorismo di questi ultimi, i britannici se ne lavarono polemicamente le mani, ammonendo però sulle conseguenze disastrose che incombevano. Infatti, i paesi arabi rifiutarono la risoluzione, ed immediatamente scoppiò la prima delle guerre arabo-israeliane. Che aprì il vaso di Pandora di sofferenze, esilio, massacri, ritorsioni, conflitti e morte a cui stiamo tuttora assistendo.

Partendo dal presupposto che nessun accordo, mai, avrebbe soddisfatto tutte le parti, e che la risoluzione n. 181 avrebbe dovuto essere, teoricamente, accettata da tutti i membri dell’ONU è necessario valutarne i punti di debolezza.

In primo luogo A) essa assegnava alla popolazione ebraica (che, seppur in crescita esponenziale, per via dell’arrivo massiccio di coloni, rappresentava circa il 33% del totale) il 56% del territorio; B) assegnava ad essa le zone economicamente ed agronomicamente più sviluppate, nonché i due terzi delle coste e la quasi totalità delle risorse idriche; C) faceva di Gerusalemme “zona internazionale”, sotto la diretta amministrazione dell’Onu, una sorta di Stato libero come Fiume e Danzica, due fallimenti storici, e, nello specifico, una vigliaccata di non-scelta.

In secondo luogo, emendava ad una serie di principi stessi dell’Onu: la “buona vicinanza” e la regionalità (preambolo, artt.33, 47, 74, e l’intero Capitolo VIII) e  l’autodeterminazione dei popoli (artt. 1, 55, 73, 75)

In terzo luogo, non predisponeva alcun piano di contrasto effettivo all’inevitabile conflitto che tutti sapevano sarebbe seguito di lì a poco.

Una risoluzione, insomma, legale e legittima, ma viziata da così tante parzialità da essere, in termini forse poco giuridici, in-giusta e foriera di conseguenze incalcolabili.

La prima grande responsabilità della comunità internazionale è stata proprio l’approvazione, affrettata, cinica, poco lucida e assai contrastata di una risoluzione che lo stato ancora embrionale dell’Onu nel 1947 non riuscì a motivare sufficientemente.

La seconda, grande, enorme, responsabilità è quella di aver abbandonato Israele e Palestina ai loro destini di guerra senza impegnare fino in fondo, con tutti i mezzi e a qualunque costo, la comunità internazionale affinché in Palestina si stabilisse una pace duratura, permanente e basata sulla legalità e la sicurezza. Questo si è tradotto in una serie di errori e lassismi che gravano come macigni sulla coscienza collettiva delle Nazioni, ovviamente condizionate da quella guerra lunga 50 anni chiamata “guerra fredda” e dallo scontro tra mondo occidentale e mondo arabo-islamico, che hanno trovato nella regione palestinese il focus di mille instabilità e conflitti (economici, militari, culturali, religiosi, geopolitici, ideologici).

“Lasciate che si scannino”, pare si siano detti i Grandi della Terra; ma ognuno pensando al suo interesse e cercando di appropriarsi di fatto del triangolo Sinai-Mar Rosso-Mediterraneo che fa gola a tutte le potenze del globo.

Ciò si manifestò clamorosamente nel 1956 quando Gran Bretagna e Francia attaccarono l’Egitto, ai loro occhi reo di aver nazionalizzato il Canale di Suez, con la complicità di Israele, che approfittò della situazione per aggredire il nemico confinante. Solo la minaccia congiunta di Usa e Urss, (parte di un gioco strategico globale complesso e violentissimo) di usare le armi atomiche contro gli aggressori fermò i carri armati lanciati verso Alessandria. Un caso più unico che raro.

In particolare, e questo è un dato di fatto, ONU e Occidente hanno perdonato, o perlomeno lasciate impunite, tutte le possibili provocazioni e violazioni delle regole e dei trattati e delle convenzioni da parte di Israele. A cominciare dall’abbattimento dei quattro spitfires britannici in volo nella sola giornata del 7 gennaio 1949 da parte degli aerei con la stella di David (condotti peraltro da cittadini nordamericani!) fino all’ultimo attacco alle postazioni ONU, condannato nei giorni scorsi dal Segretario Generale Bank Ki Moon, le Nazioni Unite hanno sempre tollerato, e non hanno mai reagito, agli atti illegali e contrari al diritto di Israele.

Anche quando si è entrati nel campo di quei comportamenti riconosciuti come Crimine nei confronti dell’Umanità, le autorità internazionali sono state silenti, deboli, complici o impotenti. Il Procuratore Generale della Corte dell’Aia ha ricordato che tale tribunale contro crimini di guerra, crimini contro l’Umanità e genocidio non è competente verso Israele poiché quest’ultima, come gli Usa e altri 106 Paesi, non ha sottoscritto il trattato istitutivo della Corte medesima (così come molti altri trattati internazionali).

La grande e forse peggiore responsabilità della comunità internazionale sta proprio qua: nel non aver imposto la pace come dovrebbe e potrebbe fare ex Carta dell’Onu, e di non aver mai reagito alle intollerabili provocazioni lasciando così decomporsi e sparire ogni autorità ed autorevolezza, e quindi ogni futuro ruolo, e quindi persino ogni futuro auspicio che non sia il “lasciamo che si scannino tra loro”.

Da un lato, la comunità internazionale, articolata nelle singole diplomazie, nella Lega Araba, nella OCSE, nei paesi africani ed asiatici come Algeria, Indonesia, India, Marocco, nella Unione Europea e ovviamente nell’Onu, aveva la possibilità, le potenzialità ed il dovere di fermare, ad ogni costo e con ogni mezzo, le azioni e le intenzioni dei gruppi militari palestinesi e fondamentalisti islamici. Non l’ha fatto, e li ha anzi in parte sostenuti, appoggiati, finanziati, armati. Dall’ambigua relazione tra OLP e Europa (Italia e Francia in testa, in una girandola di condanne e sostegno durata 60 anni) fino all’appoggio economico e militare ai peggiori tagliagole islamisti nelle ultime “primavere arabe” (interessante è il legame tra Hamas e i ribelli siriani, che hanno goduto a loro volta della simpatia di USA e Arabia), dalle guerre di disfacimento totale condotte in Somalia, Afghanistan, Iraq e Libia, fino a quella rete intrecciatissima di rapporti religiosi, tribali, religiosi, settari, famigliari, militari che lega partiti e milizie palestinesi con i vari regnanti o ras mediorientali, Occidente e Paesi Arabi hanno da sempre lasciato che sanguinari terroristi proliferassero e si arricchissero (anche con commerci illegali) nella speranza di poterli usare in quel delicato scacchiere, spesso, l’uno contro l’altro.

Ma dall’altro lato, la comunità aveva ed ha anche il compito, la possibilità, il diritto ed il dovere di sanzionare Israele con tutti i mezzi e le forze di cui dispone, attenendosi fermamente e rigorosamente alla Carta dell’Onu, che, al manifestarsi dei comportamenti del governo di Tel Aviv-Gerusalemme, avrebbe potuto e dovuto, nell’ambito dell’art. 41 e seguenti: “Imporre a tutti i Paesi membri un’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche, radio ed altre” e “la rottura delle relazioni diplomatiche” con Israele;

Se il Consiglio di Sicurezza ritenesse che le misure prese si fossero dimostrate inadeguate, esso potrebbe (e dovrebbe) intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere, o ristabilire, la pace e la sicurezza internazionale. Parole ed ipotesi scandalose? Ricordiamo che, per molto meno, simili operazioni sono state compiute su Corea del Nord, Jugoslavia, Iraq ed altri Paesi.

La comunità internazionale ha il dovere etico, storico, assoluto, di agire con laicità, cosa che invece finora è stato infelicemente evitato, e smettere di trattare il conflitto israelo-palestinese in base alle anacronistiche e dis-umane categorizzazioni quali razza e religione. Se nessuno si assume questa responsabilità di una sterzata laica, la scia di sangue non si interromperà mai. Terre santecittà santeluoghi santi, politiche estere che sconfinano nella mistica religiosa (“Questo paese esiste come il compimento della promessa fatta da Dio stesso. Sarebbe ridicolo chiedere conto della sua legittimità”. Golda Meier, Le Monde, 15 ottobre 1971)

In conclusione: per quanto duri siano i provvedimenti necessari, l’Onu e le altre organizzazioni hanno il diritto-dovere di porre termine a tutte le violazioni delle norme internazionali; hanno il diritto-dovere di porre termine a questa sorte di limbo senza regole, e a questo scopo deve dedicarsi con il massimo impegno e la massima priorità, se vuole mantenere la legalità e la democrazia a livello delle relazioni internazionali e del diritto delle genti (ambiti dove abbondano, peraltro, il cinismo e l’esercizio della violenza, ma secondo determinate convenzioni). L’alternativa è quella di tornare ad una organizzazione delle relazioni fra le Nazioni basata sulla assenza di istituzioni sovranazionali e sul mero rapporto di forza.

 

DOCUMENTI CORRELATI

l’analisi delle Leggi Fondamentali dello Stato di Isreale (la sua “Costituzione”)

Bozza della Costituzione palestinese (tradotta e commentata in inglese, in italiano non è reperibile)

lo statuto di Hamas

la Carta dell’ONU