di Marco Ottanelli
Paese unico al mondo ad indire le primarie di coalizione e ad indirle a doppio turno, l’Italia ha visto, il 25 novembre 2012, una mobilitazione politica senza precedenti. Non tanto in termini di partecipazione (le uniche altre primarie di coalizione a livello nazionale avevano registrato più di 4 milioni e 300 mila votanti, mentre queste ultime poco più di 3 milioni e 100 mila; ma i partiti in competizione erano di più, la comparazione è difficile), quanto per lo scontro e la tensione, a volte anche vivace al limite del civile tra i candidati ed i loro rispettivi staff e fan.
Il primo turno si è concluso con un – prevedibile – duetto piddino, il segretario Bersani ed il sindaco Renzi che se la vedranno il 2 dicembre. Dopo qualche ulteriore (e poco gradevole) scaramuccia sui numeri e dati, le proporzioni sono queste:
Bersani |
Renzi |
Vendola |
Puppato |
Tabacci |
44,9% |
35,5% |
15,6% |
2,6% |
1,4% |
Graficamente è interessante vedere come si siano distribuiti i partecipanti, ovvero in una sorta di “bipolarismo” interno che lascia poco alla fantasia: qua si tratta di una questione fortemente caratterizzata dalla battaglia contro il suo stesso apparato di Renzi. I restanti temi, sono rimasti sullo sfondo.
Laura Puppato non ha avuto storia, come terza voce nel PD, come catalizzatrice dei “né con Renzi né con Bersani”, e a Tabacci non è riuscito il colpaccio dell’antico compagno di partito Mastella, che, nel 2005, arrivò inaspettatamente terzo dopo Prodi e Bertinotti.
Il risultato di Vendola è interessante, e va valutato in ogni senso. Intanto: 485 mila voti sono tanti o pochi? Dobbiamo fare un po’ di proiezioni, di calcoli ponderali, di studio dei sondaggi (che accreditano SEL attorno al 6%) e dei risultati effettivi (nelle passate amministrative, SEL ha raggiunto circa il 4%), e per quanto la si veda ottimisticamente, il peso di Libertà ed Ecologia e del suo presidente non sembrano aver goduto di nessun effetto trascinamento o di nessun spostamento da parte degli elettori “delusi” dalla linea montiana del PD((Gli aventi diritto al voto, in Italia, sono circa 45 milioni. I voti validi, stimati in circa il 70% di questa cifra, dovrebbero essere circa 31 milioni. Alle primarie, ha partecipato il 10% di questi 31 milioni, e circa un terzo degli elettori accreditati al centrosinistra. Da questo, tramite facili calcoli, si deduce che SEL dovrebbe raggiungere circa il 4,5-5% dei voti, quota perfettamente in linea con quelle dei sondaggi e degli ultimi risultati)). Se la partecipazione di Vendola alle primarie era quella di scuotere (ed attrarre) una parte sensibile della opinione pubblica oltre i suo abituale bacino di voti, e dare una spinta non-montiana alla politica italiana…Beh, il suo non è stato un grande risultato. La buona, ottima, ma non decisiva affermazione nella sua Puglia conferma che in quella regione è benvisto, forse amato, ma non riesce ad arrivare primo, fermandosi al 37,3%, dopo Bersani. SEL si trova ora confermata (confinata?) nel suo ruolo di piccolo partito, e solo, abbandonato il fugace amore con la morente IDV, e se Vendola non è riuscito ad imporre la sua personale leadership adesso, in un confronto serratissimo nella stessa coalizione, ben difficilmente potrà aspirare a qualcosa di più nei prossimi mesi, e alle elezioni. Due son le strade che si aprono, per il partito, adesso: o radicalizzare il suo essere alternativo (contro!) al PD, o assomigliargli sempre di più.
Già, ma quale PD sarà, quello del post-primarie? Non più quello di prima, qualsiasi sia il risultato. La prestazione niente affatto deludente di Renzi e quella di solida tenuta (ma, diciamolo pure, di vittoria!) di Bersani hanno polarizzato un partito già di per sé diviso su tutto in mille correnti e sub correnti. E non lo hanno polarizzato su una classica distanza destra-sinistra (o non solo), ma su una questione profonda e decisiva di caratterizzazione, personalità, identità.
Bersani incassa un pregevole 45%, e non vince le primarie al primo colpo per poco. Tenendo conto di come è andata la campagna elettorale, e di quali siano stati i richiami anti-apparato del suo principale avversario, è un risultato anche superiore alle previsioni. Molti di coloro che fanno parte di quell’apparato hanno votato il segretario, certo, ma nel milione e 395 mila cittadini che hanno scelto proprio lui, non ci sono certo solo funzionari e vecchi nostalgici.
Renzi riscuote i frutti di un investimento importante, quello di una campagna elettorale al contatto con la gente in centinaia di incontri, e quello di un gruppo di supporto appassionato e decisissimo. E ovviamente delle quello delle sue battaglie e delle sue idee forti, che hanno realmente scosso il suo partito, il centrosinistra e la politica italiana stessa. Chi ha votato Renzi? Elettori di tutte le tendenze, di ogni appartenenza, sicuramente moltissimi non iscritti al PD, o che il PD non avevano votato, e quando diciamo questo non intendiamo necessariamente che provengano da “destra”, anzi. E la concentrazione dei suoi consensi nelle zone “rosse” dovrebbe essere sufficiente a dimostrarlo, paranoie a parte.
Anche nel caso di Renzi, dobbiamo chiederci se il suo 35,5% sia “molto” o “poco”. Sicuramente un parametro per valutare quanto Renzi abbia appeal, presa, consenso, è quello dell’afflusso e della distribuzione del voto in Toscana (dove non è passato un giorno che non fosse di polemica tra lui ed il partito locale, compresi i presidenti di Regione Martini e Rossi, i presidenti di provincia e tantissimi sindaci e politici piddini, e questo fin dalla sua elezione a presidente della provincia di Firenze, nel 2004), e soprattutto a Firenze, la città che amministra dal 2009.
Primo dato: l’affluenza. È interessantissimo vedere la differenza di affluenza al voto nelle principali regioni italiane.
La abbiamo calcolata sul totale degli aventi diritto al voto alle elezioni “normali”, ed è evidente come il voto sia stato assai concentrato nelle due grandi regioni dove il PD è ancora potente e strutturato, l’Emilia Romagna con il 12,7% e la Toscana, appunto, che ha il record del 14,2% . La Puglia di Vendola si ferma ad un 4,3 in linea con la media generale((Tutte le restanti regioni hanno avuto una affluenza dal 3 al 6% circa, con l’unica eccezione dell’Umbria, anch’essa terra tradizionalmente piddina, che arriva al 10%)).
Un picco evidente di partecipazione che in Toscana ha decisamente premiato Renzi, che ha avuto la soddisfazione A) di superare il 52% delle preferenze. B) di vedere tale percentuale arrivare al 54% in provincia (la sua provincia) di Firenze C) di vedere a Firenze città (dove ha votato più del 20% di tutti i cittadini maggiorenni) il suo consenso arrivare al 52,19% per un totale di 29.941 voti.
Che sia, localmente, un successo, e, per esteso, un giudizio positivo dei fiorentini raccontato agli italiani sul suo operare, è indubbio, soprattutto se pensiamo che alle primarie per la carica di sindaco del 2009, lo stesso Renzi aveva ottenuto il 40,5% dei voti per un totale di 15.104 preferenze. In questi quattro anni, ha portato con sé altri quattordicimila cittadini, vincendo quell’implicito referendum sul buono/cattivo che aleggiava su Palazzo Vecchio e spazzando via quella leggenda secondo la quale a Firenze era odiato e disprezzato dai più.
Firenze e la Toscana sono grandi segnali e pesano ponderalmente moltissimo, ma è Bersani, ovviamente, che ha la prima posizione a livello nazionale. Però supera il 50% di un soffio in Liguria e Campania (regiona popolosa ma con scarsa partecipazione) e si trova saldamente oltre la metà dei voti solo in regioni dalla bassa affluenza (sia in termini assoluti, sia in termini percentuali: Calabria, Basilicata, Sardegna e Sicilia) che pesano, e peseranno al ballottaggio, poco sul totale. Fallisce l’obiettivo di superare la metà più uno dei voti in Emilia Romagna, la sua Emilia, e la seconda regione per consistenza elettorale.
A questo punto, è evidente, la partita è aperta, sia politicamente, sia ideologicamente, che geograficamente.
La distribuzione e composizione dei consensi è complessa, suddivisa su molti piani e non sempre chiara: c’è lo scontro interno al PD e la tensione tra apparati; c’è l’ala vendoliana non necessariamente vicina a SEL; c’è il peso delle federazioni e delle specificità territoriali; ci sono i tanti cittadini che non hanno tessera o appartenenza partitica certa che hanno detto e voglio ridire la loro. Ci sono interessi interni ed esterni alla coalizione (l’UDC non starà ferma a guardare, il PDL ha detto chiaramente che aspetta l’esito di queste primarie per decidere sulle sue, e ci siamo scordati tutti che il PSI, il minuscolo ma potente PSI del toscano Riccardo Nencini fa parte della coalizione stessa, anche se non ha presentato un suo candidato alle primarie; al contrario dell’API di Rutelli, che non ne fa parte, del centrosinistra, ma ha mandato un suo esponente alle primarie, Tabacci!), e c’è soprattutto una visione molto diversa della politica tra i contendenti. Starà alle capacità, intelligenze e intuizioni dei due sfidanti finali e dei loro collaboratori il saper combinare le tessere del mosaico che hanno davanti con cura ed attenzione, perché in un quadro tanto complesso e delicato ogni mossa può essere quella decisiva.
È vero, le primarie all’italiana sono uno strumento atipico e un po’ fuori dalla costituzione, ma questa volta imprimeranno una spinta determinante alla direzione politica generale nazionale.