di Gabriele Pazzaglia
Non paia che il nostro sito si sia “fissato” sul PD. La nostra cerca sempre di essere una analisi scientifica. E scientificamente dobbiamo constatare che il dibattito politico, il luogo dove la Politica si esercita, come dimostrato ulteriormente dalla buffa crisi-lampo che ha portato al governo Gentiloni, non è più il Parlamento; non è neanche quel luogo ideale magico ed un po’ oscuro che erano i vertici di maggioranza. Non è neanche a Palazzo Chigi, completamente esautorato da tempo sia in proposte che in percorsi ideali che in tempistica. Tutto si dibatte e ribatte all’interno del Partito Democratico, che si è fatto Camera Unica di questo strano debole Paese.
Domenica 18 dicembre, dopo due settimane dalla sconfitta del referendum costituzionale, si è svolta l’Assemblea Nazionale del Partito democratico. Chiunque abbia visto sfilare, uno dopo l’altro, molti dei sui esponenti di vertice e li abbia ascoltati non può che constatare l’estrema insipienza del dibattito: il primo confronto interno, dopo del cambio di Governo, nel massimo organo di indirizzo politico del gruppo parlamentare di maggioranza relativa, non ha determinato nessun indirizzo politico.
La base del dibattito, la relazione del segretario Renzi, ha spiccato solo per genericità. Non una cifra, non un dato, non un nome. Il discorso di un ora di Renzi può essere diviso in due parti: nella prima metà si è limitato a dire che la sconfitta (“abbiamo straperso”) è per il voto dei giovani e il sud. Ma tale semplicistica analisi non ci convince, come abbiamo spiegato in un precedente articolo, perché è una versione nella quale si auto-racconta il partito di governo, e che ignora che la realtà è più complessa: ed è fatta di dissenso, che tanto al nord, tanto tra le persone di mezza età, tanto tra gli imprenditori e lavoratori autonomi si è manifestato in tutte le zone che non siano l’entroterra toscano, la zona di Bologna e di Bolzano.
Ma anche se fosse vero, il segretario del PD non riesce ad approfondire l’analisi, a spiegare perché quelle persone (giovani e meridionali, dice lui, come se fossero corpi separati dal resto della Nazione) non sono con loro, se non, in un rapido passaggio, indicando come errore “principalmente suo” non aver creato un “coinvolgimento politico” al sud preferendo affidarsi al “notabilato del partito”. Davanti una frase così, che non è altro che la confessione di aver disatteso tutto il programma politico della “rottamazione” – ed è la confessione della considerazione che Renzi ed il PD hanno dei cittadini meridionali: servi della gleba in mano a feudatari onnipotenti- ci sarebbe stato da restare allibiti, e avrebbe legittimato più d’uno a chiederne le dimissioni o ad alzarsi ed andarsene. Invece, la frase detta con il tono della vittoria rivendicata, ha galvanizzato l’Assemblea che l’ha accolta con alcuni degli applausi più intensi di tutto il discorso.
La relazione, nella sua seconda metà, si è concentrata sulle cose positive fatte dal Governo. Che però, dice il segretario, sarebbero state offuscate dalle “bufale” del Movimento 5 stelle “sul web”, tanto che lo stesso Renzi ha chiamato il Partito ad una riorganizzazione ad inizio anno anche nella gestione della comunicazione telematica. È veramente triste che il livello del dibattito politico sia così scadente. Non sarà certo questo sito web a difendere un partito come il 5 stelle, certo lontano dai nostri ideali europeisti e liberali, ma l’idea di accusare chiunque di capacità di falsificare la realtà quando nelle settimane precedenti al voto, televisione e web, erano letteralmente saturi della presenza delle posizioni del Sì, e della stessa persona di Renzi, è veramente troppo. Il Sì, ha perso, perché o il progetto nel merito, o la linea politica del Governo, non sono piaciuti. La situazione è così chiara che può non vederla solo chi non la vuole vedere.
E la conclusione lascia perplessi: l’errore che più di tutti Renzi si imputa è quello di non aver capito che il referendum avrebbe portato “non ad una personalizzazione ma ad una politicizzazione del quesito”. Possibile che il grande stratega che è diventato presidente del Consiglio dopo pochissimi anni di politica nazionale, da sindaco di una media città quale era, possa ammettere di aver fatto un errore così grossolano? La Costituzione è la scelta politica fondamentale, quella che più politica non si può. Come può una qualunque persona che gestisca la cosa pubblica pensare di poter cambiare un terzo della stessa, senza incorrere nel fuoco incrociato di tutte le opposizioni che non sono coinvolte nel cambiamento? Oltretutto, quando un capo del Governo condiziona la sua permanenza in carica a quello stesso cambiamento. Possibile che siamo davanti ad una persona così inconsapevole?
E, quindi, ancora una volta, nell’assenza di un progetto, viene affidato allo specchietto per le allodole della ennesima modifica della legge elettorale (la ottava, se contiamo i progetti approvati e abortiti, come la legge-truffa e l’italicum prima versione, più di una ogni dieci anni), alla quale si affidano ancora poteri miracolistici. L’unica proposta concreta dell’Assemblea è il rilancio del Mattarellum indicato come soluzione di tutti i problemi politici del Paese. Noi crediamo che sia una scelta sbagliata, lo abbiamo scritto mille volte, ma la stragrande maggioranza del Partito appoggia il suo segretario. A questa relazione traballante hanno infatti risposto esponenti certo noti ed influenti ma ancora più incerti di Renzi.
Tutti si sono limitati a vuote frasi di stile che non toccavano il merito del problema: che fare? Come affrontare questa modernità che ci sta arrivando addosso come un treno? Quali scelte per fronteggiare i flussi migratori, la crisi finanziaria, la disoccupazione? Insomma, questo nuovo Governo, come deve agire?
È stato un alternarsi di “abbiamo bisogno di capire”, dobbiamo “riflettere”, c’è bisogno di “discutere”, è necessario “confrontarci”, dobbiamo ricucire “il distacco”, elaborare “un’altra idea per spiegare i tempi”, dobbiamo “intraprendere azioni adeguate” e “rifondare il patto sociale” addirittura per trovare una “terza via tra capitalismo e socialismo”. Soluzioni, percorsi, idee concrete con le quali uscire dell’incontro e poter dire “so quale è il progetto”? Niente.
Tra un Epifani che ha lanciato l’idea di una “conferenza programmatica dal basso” (?) e un Del Rio che precisa che la stessa debba servire “per essere in sintonia con la pancia del paese ma senza assecondarla come fanno i populisti” (??) e che bisogna ripartire dalle “identità territoriali”, tra queste formule vuote, una delle poche questioni economiche sollevate ha riguardato gli oramai famosi voucher((cioè quel sistema di pagamento del rapporto di lavoro che, nato per far emergere il nero nei lavori stagionali ha finito per aumentare la precarietà in lavori che prima erano almeno a tempo determinato)) nominati dallo stesso Epifani, da Fassino e da Martina, voucher definiti, come l’immigrazione, “grandi sfide”; la strategia per affrontarle però, non è stata raccontata. Deduciamo quindi che manchi totalmente.
Così come manca una strategia per quella minoranza che il Presidente della Toscana, Rossi, vorrebbe far tornare alla guida del Partito: questi ha parlato più volte, fuori dall’Assemblea, di “socialismo” ed anche nella direzione ha ricordato i limiti ed i guasti del mercato. È un tema interessante e vastissimo, ma non ha nemmeno iniziato ad entrare nel merito della regolamentazione che lui proporrebbe. In quali settori? Commercio o industria? O Servizi? E regolamentare come? E con quale intensità? Ancora non lo sappiamo, e non è nemmeno intuibile dato che chi lo ha preceduto nell’area culturale che rivendica (su tutti Bersani) si è caratterizzato per liberalismo piuttosto che per statalismo.
Il resto è stato un confronto tutto interno tra correnti: lo stesso Rossi ha chiesto il congresso il prima possibile, un fedelissimo renziano come Del Rio, in un gioco delle parti con lo stesso Renzi, ha chiesto il voto il prima possibile, Renzi stesso nella sua relazione ha detto che qual congresso non lo anticipa rispetto alla scadenza naturale della fine del 2017 proprio per venire incontro alla minoranza. Il punto più basso è stata l’offesa di Giachetti a Speranza: non possiamo che disgustarci davanti ad ogni forma di volgarizzazione del dibattito, e non tanto per l’espressione volgarotta usata, quanto perché il succo dell’accusa di Giachetti alla minoranza era di non aver voluto a suo tempo il suo amato, amatissimo, mattarellum, il cui ritorno, Giachetti, ha auspicato con tanto di sciopero della fame… Scorda Ghiachetti che l’ipotesi di questa resurrezione fu scartata e rifiutata non tanto dalla minoranza di sinistra del PD, ma dal fatto che il capo leader e segretario di maggioranza, Renzi, inventò l’italicum assieme a Berlusconi nel Patto del Nazareno, e lo impose al partito e al Parlamento con tanto di voto di fiducia il 28 aprile 2015. Memoria corta, questo Giachetti..
In questo contesto è passato sotto silenzio il buffo lapsus freudiano della capogruppo in consiglio Comunale romana De Biase (“devo dirvi cosa è successo a Roma in questi primi sei mesi della giunta Marino…” con tanto di richiami dalla platea che ricordavano che è la Raggi quella che non fa parte del partito). Così come è passata tranquillamente l’invocazione di Cuperlo “all’unica autorità morale rimasta: che è quella Oltretevere” accolta da stanchi applausi dalla platea. Una frase così, in un discorso anche di buon livello, tra citazioni di Bobbio e richiami al principio di eguaglianza, un elogio alla più conservatrice delle istituzioni conservatrici, ad un’autorità estranea al partito ed esterna all’Italia, è la pietra debole che mina la credibilità di questa cosiddetta sinistra di un partito della cosiddetta sinistra. Viene da pensare che abbia fatto meglio Pittella, il candidato del Partito alla Presidenza del Parlamento europeo, ad eclissarsi politicamente limitando il suo intervento a meno di 4 minuti di cronometro usati solo per affermare la necessità della “leadership” di Renzi. Forse un debito per aver fatto entrare il PD nel Partito socialista europeo che supporta la sua odierna candidatura.
A chi mi chiedesse come vogliono governare, dopo averli ascoltati, io non saprei rispondere. E temo neanche loro. Perché non si vive di sola legge elettorale.
Due parole sulla legge elettorale. Per difendersi dal dibattito.
Abbiamo detto che Renzi ha rilanciato il Mattarellum.
È probabile quindi che al povero popolo italiano sarà inflitto l’ennesimo dibatto sul punto; diamo qualche informazione per non farsi fregare:
- I sistemi elettorali sono di due tipi, come è noto. Il proporzionale (tot percentuale di voti = tot percentuale di seggi) che obbliga, per governare ad avere il consenso del paese. Il maggioritario è una grande famiglia che contiene tante varianti, quello classico è il modello britannico: dividere il paese in tanti collegi quanti sono il numero dei posti in Parlamento ed in ognuno di essi eleggere una persona. Ne discende che viene distorto il risultato perché – caso estremo – se un partito prende il 49% in tutti i collegi, con quasi la metà dei consensi, prende 0 (zero) seggi.
- Il maggioritario non determina la “governabilità”. Questo concetto figlio della seconda Repubblica, che vorrebbe dire avere un Esecutivo forte che comandi il Parlamento (mentre dovrebbe essere il contrario) non c’entra niente con il sistema elettorale. Al mondo ci sono paesi proporzionali che hanno vissuto periodi di maggiore e minore stabilità, bipolarismo o larghe intese a sistema invariato. Si pensi alla Spagna passata dal bi al quadripartitismo, o alla Germania alla seconda grosskoalition in tre legislature, alle turbolenze momentanee dei Paesi Bassi o alla stabilità di quelli scandinavi. In Gran Bretagna, patria del maggioritario, dopo l’era Thatcher(che comunque fu messa da parte dal suo stesso partito, senza elezioni) Cameron si è dimesso per aver perso il referendum, e prima di lui il famoso Blair (portato come esempio vincente dall’area renziana) fu fatto fuori dal suo stesso partito. L’italia degli anni ’90, con Mattarellum oggi risorgente, ha avuto 8 governi in 3 legislature una delle quali sciolta anticipatamente.
- Il maggioritario di collegio conviene a chi ha una concentrazione territoriale dei propri elettori. Immaginiamo un partito che abbia il 10% dei voti uniformemente distribuiti sul territorio. Con un sistema maggioritario rischia di non vincere nemmeno un collegio. Ma se quei voti sono concentrati in poche regioni (ad esempio il nord Italia o la zona tra Firenze-Bologna e Reggio Emilia, tanto per non fare nomi), quei partiti riusciranno a moltiplicare artificialmente il proprio peso politico. Per questo il mattarellum è sempre stato ben voluto da Lega Nord e Salvini ed oggi non è affatto sgradito al PD (ed improvvisamente, votare con Salvini non è più accozzaglia, ma ragionevole e stimabile convergenza ideale)
La nostra opinione è chiara, tutti i dati pubblici fanno ritenere che i problemi del paese siano politici, e non istituzionali. La mancanza di coesione delle forze politiche, l’imprevedibilità del loro comportamento e la loro incapacità di costruire coalizioni coerenti sulla base di programmi approfonditi, questi sono i problemi. Che si risolvono con regole sui partiti e sul sistema degli stessi e non con la legge elettorale. Questa non riguarda l’efficienza del processo decisionale ma solo il modo di rappresentare del popolo. Questa rappresentanza con il maggioritario è distorta e permette di trasformare artificialmente una minoranza di consensi in una maggioranza di seggi: un meccanismo che in occidente non è la regola, ma l’eccezione: esiste solo in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti((Esiste nella Francia della V Repubblica figlia ancora dell’idea di De Gaulle della capacità ordinatrice del doppio turno collegato ad un sistema presidenziale; esiste nel Regno Unito, dove è un residuo della tradizione pre-moderna nella quale l’idea della rappresentanza non era “nazionale” ma delle città che difendevano i loro privilegi e prerogative dalla Corona e per questo aveva bisogno di una rappresentanza territoriale, che poi è rimasta senza altra motivazione razionale che la tradizione stessa. E gli Stati Uniti, anch’essi influenzati dall’ex madre patria ed in un contesto presidenziale)).
Nel PD si sono mostrati tutti d’accordo con il segretario tranne due attuali ministri: Martina e Orlando. Quest’ultimo ha detto parole molto condivisibili sui guasti della scelta di un sistema maggioritario creando solo sulla carta una maggioranza che non esiste nel Paese, condanna quella forza politica alla debolezza (vedasi esperienza dell’Ulivo) perché sarà costantemente esposta ad un potente argomento dell’opposizione: la mancanza di legittimità. E ci trova d’accordo perché in democrazia è la più grave delle carenze.