Dati e analisi delle elezioni del 2022. Vittoria di FdI, ma non travolgente

di Marco Ottanelli

Partiamo da una considerazione: da mesi si parlava, sulla base di sondaggi e di risultati di elezioni locali sparse per tutto il Paese, della vittoria piena, certa ed inevitabile di Fratelli d’Italia, e se ne indicava anche, con buona approssimazione, l’entità. Finché ciò avveniva nell’ambito degli istituti demoscopici, niente di strano: ma quando è diventato vulgata giornalistica e postulato nel dibattito politico, la ipotesi da verificare si è trasformata in un classico caso di profezia che si autoavvera: tutti, i leader di partito, i militanti o simpatizzanti, gli opinionisti, tutti hanno recitato ininterrottamente il mantra de “la Meloni fa il 25%” ; ascoltando e convincendosi di tale mantra, da una parte esponenti politici e elettori sono migrati, come elementi attratti dalla gravità esercitata dalla massa di maggiori dimensioni nello spazio, proprio in direzione di FdI, aumentandone quindi a loro volta massa e raggio e forza gravitazionale, dall’altra parte inducendo gli avversari ad impostare l’intera campagna elettorale come affannati e impotenti inseguitori o come rassegnati pre-sconfitti attenti solo a limitare le perdite. E tale atteggiamento non può che aver accresciuto quel senso di fatalismo o disgusto o inutilità dei loro (dei pre-sconfitti) elettori, che li hanno rassegnatamente abbandonati, contribuendo al risultato negativo. Sembrava quasi che tutto, dal sondaggio al risultato finale, fosse studiato in una commedia delle parti nella quale ogni personaggio aveva il suo copione già scritto.

Detto ciò, e passando alla analisi del voto del 25 settembre, riteniamo, come nostro solito, guardare con più attenzione ai numeri assoluti che non alle percentuali, perché, come spesso spiegato su questo sito, è l’appeal, la capacità di attrazione, di convincimento e poi di fidelizzazione che è realmente importante per un partito nel costruire il suo Potere, inteso sia nel senso più nobile di “essere realmente in grado di attuare il suo programma e mantenere le sue promesse” sia in quello più materialistico di “mantenere la presa sui gangli decisionali, economici politici culturali e burocratici”.

Già…la fidelizzazione… in questi pochi anni abbiamo visto il PD a guida Renzi esaltarsi per un 40% alle Europee, il M5S a guida Di Maio trionfare con il 32% alle politiche, la Lega a guida Salvini sfondare quota 34% nel 2019… e poi, uno dopo l’altro, con la stessa immediatezza, tutti questi risultati “storici” e tutti questi leader “inarrestabili” afflosciarsi e sgonfiarsi impietosamente come un soufflé cotto male. Per Fratelli d’Italia guidati da Giorgia Meloni, sarà lo stesso? La sfida, in un Paese come il nostro dove quel corpo elettorale che fu il più granitico e immobile dell’intero occidente e che ora ne è il più liquido, quasi gassoso, ed incontrollabile, la sfida per la neovincitrice sarà proprio quella: trattenere questo consenso gassoso che ha – occasionalmente? – raccolto.

Trattenere gli elettori.

Nessuno più, infatti, riesce a trattenere gli elettori italiani e a conquistarne la fiducia. L’astensione aumenta in progressione preoccupante. Quando l’affluenza si attesta su quella del 25 settembre, ovvero solo il 63% circa, non si può più parlare di qualunquismo o menefreghismo: qua siamo davanti a decine di milioni di cittadini che hanno coscienziosamente valutato come invotabili, non degni o non meritori del loro voto, i partiti e gli schieramenti in lizza.

Su 46.021.956 di aventi diritto, hanno votato solo 29.355.592 persone, e di quest’ultime, ben 1.309.901 hanno depositato nell’urna una scheda bianca o nulla: a fronte quindi di circa un quasi 9% di votanti in meno rispetto alle ultime politiche, ha annullato il voto il 30% in più (nel 2018 bianche e nulle erano poco più di un milione). Ci vuole altro, ancora, per comprendere che c’è un malessere profondo e motivato, una malattia della democrazia partecipata da imputare non agli astenuti, ma a coloro che sono causa di tale astensione? Sappiamo che sì, è un fenomeno non dissimile (anche se con la accelerazione più violenta) da quello degli altri paesi occidentali: ma non è mica una consolazione, questa. Anzi: vuol dire che alle nostre peculiari, abbiamo aggiunto un’altra patologia. Che, si badi bene, nessun partito o politico ha seriamente intenzione di sanare, perché un corpo elettorale ridotto, composto sempre più, in percentuale relativa, di militanti e fedelissimi, è dannatamente più semplice da controllare. Ancora non siamo a tale livello ma pare che ci stiano lavorando alacremente.

Un po’ di numeri

Guardiamo dunque i numeri assoluti, che indicano con esattezza quante persone, al netto dei neovotanti, dei deceduti, dei delusi, dei convinti, dei fedelissimi e degli astenuti hanno ritenuto di uscire di casa, andare al seggio e mettere la X proprio su quel simbolo, quel partito. Abbiamo comparato i risultati delle elezioni politiche del 2018, delle europee del 2019 e dell’ultima tornata. Cerchiamo di analizzare cosa emerge da tutto ciò

il voto per lista delle ultime tornate elettorali
il voto per lista delle ultime tornate elettorali

Saltano all’occhio immediatamente l’incremento vertiginoso di Fratelli d’Italia, il crollo brutale del M5S e la batosta della Lega. Tutto il resto è stabile o quasi, con le variabili e varianti del caso. Tenendo conto dell’astensione, ogni voto preso in più ha un valore maggiorato, quindi non possiamo che evidenziare come FdI ha effettivamente avuto quell’appeal, quel fascino che dicevamo prima: è piaciuto. Meloni ha convinto. Ma attenzione, non ha stravinto! I sui 7 milioni e 300 mila elettori sono tanti, sì, ma molti meno dei 10 milioni e 700 mila che scelsero il Movimento Cinque Stelle nel 2018 e, giusto per capire bene la portata degli eventi, meno pure degli 8 milioni e 600 mila che votarono il Pd di Bersani nel 2013. Oggi la vulgata, il refrain, il mantra è “tutto il potere a Giorgia”, ma non è che la massa degli italiani sia con lei! La distorsione percettiva delle percentuali (anche qui: si tratta in fondo di un 26%, contro rispettivamente un 32,4% e un 25,4% dei passati vincitori) e soprattutto dell’effetto moltiplicatore del maggioritario e della riduzione dei parlamentari (meccanismi entrambi che premiano chi prende più voti e penalizzano chi ne ha meno) stanno annebbiando le idee ai commentatori italiani e stranieri. Giorgia e i sui Fratelli sono arrivati primi, ma non sono “gli italiani”, non sono l’Italia. Si legge e si ascolta di pieni poteri, di conquista dello Stato, di Italia a partito unico, di italiani tutti fascisti… Come dicevano Troisi e Benigni nella lettera al Savonarola in Non ci resta che piangere, diamoci una calmata!

Voti per coalizioni

Se diamo un corpo numerico ai voti raccolti per coalizione (seppur dovendoci barcamenare nel mutare delle stesse, soprattutto a sinistra) e lo sovrapponiamo al precedente grafico, ci possiamo rendere conto facilmente di altri dettagli.

il voto per coalizione delle ultime tornate elettorali
il voto per coalizione delle ultime tornate elettorali

Innanzi tutto, ci rendiamo conto che l’elettorato è sempre stato tendenzialmente di destra; il voto del 25 settembre non è quindi né una novità né una sorpresa: gli italiani hanno continuato, a grandi linee, ad essere sé stessi, e hanno votato di conseguenza. Più o meno nella stessa misura, e parliamo, ricordiamolo, di voti assoluti, non di percentuali. Si può dire quindi che il centrodestra non ha pescato grandi consensi ulteriori, rispetto al passato: si è solo autocannibalizzato. Infatti i flussi di voto parlano chiaro: la stragrande maggioranza dei nuovi consensi di FdI non viene “dall’esterno”, ma da Lega e Forza Italia. Certo, non soltanto: i risultati nelle ex regioni rosse sono infatti chiari nel mostrare una certa quota di voti provenienti da sinistra, ma è dai suoi alleati che Fratelli prende forze energie e fiducia,1 con una assunzione di posizioni sicuramente intelligenti (o se volete furbe, opportuniste, ma insomma: utili ai suoi fini!), non ultima per importanza quella di essere, mostrarsi, raccontarsi come l’unica vera opposizione e quindi l’unica vera alternativa, l’unica vera forza capace di raccogliere ogni scontento.

D’altra parte, è anche quest’ultimo un fenomeno già visto: negli ultimi anni, rimanendo constante la coalizione di centrodestra, i suoi elettori hanno cambiato tre volte partito e leader di riferimento: prima Berlusconi, poi Salvini, ora la Meloni. Lo hanno fatto con la stessa dirompenza e lo stesso entusiasmo con i quali poi li hanno abbandonati, pur rimanendo in quell’ambito ideologico. Magari spostandosi sempre più a destra, se si riesce a misurare questo parametro. L’esatto contrario della coalizione avversa, che, nella sua continua variabilità dei componenti, rimane ancorata al modello PD+cespugli.

Ah già, il PD… povero Letta, tutti a dargli addosso, nell’eterna carambola dei segretari di quel partito… uno lo accusa di una scelta, l’altro della scelta contraria… Non vogliamo esser noi i difensori di Letta, ma, come esasperati ci paiono i toni sulla vittoria di FdI, allo stesso modo ci paiono esagerati – ed esacerbati- i toni sulla disfatta di Letta. Facciamo ben attenzione: è difficile sentire qualcuno che parli di sconfitta del Partito Democratico; tutti danno addosso al segretario di turno, soprattutto i suoi compagni di partito, alludendo al fatto che loro avrebbero fatto meglio, e di più. In realtà l’erosione dei voti il PD la subisce da molto tempo, la perdita di affezione e di fiducia vanno di pari passo con la perdita dei tanto celebrati territori, regioni e città che passano alla destra; ma se stavolta i dem si sono fermati a soli 5 milioni e 200 mila voti, si deve pur considerare che negli ultimi anni essi hanno subito una grave crisi di segreteria (con le dimissioni a freddo di Zingaretti, condite dalle sue accuse ai dirigenti di pensare solo alle poltrone, accuse alle quali non si è dato alcun seguito) e diverse scissioni e abbandoni, anche di esponenti di primo livello, compresi almeno tre ex segretari. E due di questi scissionisti, Calenda e Renzi, si sono presentati in un patto di mutuo sostegno, ed hanno improntato la campagna elettorale soprattutto contro il PD stesso (ed il M5S, certo). Insomma, a nostro avviso, il PD ha retto in maniera decente alle spinte di astensione, disaffezione e scissioni. Il punto è piuttosto nel fatto che un partito ha bisogno di attrarre nuove risorse mentre il PD le perde come sabbia da un sacchetto bucato. Non è il segretario, che d’altronde è la scelta, la summa, l’espressione degli iscritti tutti, il problema: esso è invece collettivamente imputabile all’insieme del partito, al suo atteggiamento a volte ostinatamente sordo e cieco verso le istanze degli elettori, mentre appare ad essi come il simbolo stesso dell’apparato, al quale d’altronde è perfettamente collimante e confacente. Il PD non ha bisogno [solo] di cambiare l’ennesimo segretario, ma ha necessità di cambiare atteggiamento, posizioni e programmi, riconoscendo la dura realtà: o essi sono sbagliati, o agli italiani non piacciono. Rimanere ancorati ai propri fantasmi, o fissazioni, o interessi particolari, non porta lontano.

E fin quando il nemico dichiarato di una parte del PD è il suo stesso alleato fisso, cioè la “sinistra”, che da molti esponenti di quel partito è vista come la vera bestia nera, il demonio da esorcizzare, il serpente da schiacciare, ecco, fino a quando interi settori di un partito hanno come scopo e fine quello di eliminare coloro coi quali vanno poi in coalizione, la domanda è come mai si possa sperare che una simile coalizione possa e debba vincere. La sinistra, nel suo complesso, complice anche dei suoi ormai innumerevoli errori, si è annichilita. Non bastano i guizzi di questa o quella lista effimera e/o locale a far da freno alle perdite ormai inarginabili. Di questo passo, a sinistra del PD non rimarrà nulla. La sinistra in Italia sta sparendo. E ci si sorprende se poi vince la destra…

Caso a sé, come a sé ne è la storia, il Movimento Cinque Stelle. Ricordate quando, non molto tempo fa, i giornaloni e i commentatoroni e anche qualche politicone scommettevano sulla scissione del Movimento, e prevedevano la nascita del Partito di Conte, che, sostenevano costoro, liberatosi della zavorra grillesca e degli eccessi di Di Maio, avrebbe raccolto sul 20% e sarebbe diventato il faro e il leder di tutto il centrosinitra responsabile? Conte, eroe e guida in un futuro di splendore, ma anche di moderata compostezza. Ma far profezie è azzardato, come si è visto. Infatti è successo tutto il contrario: Conte non si è scisso, ma “è stato scisso”; da eroe e guida è diventato reietto e impresentabile; il discolo Di Maio è il simbolo del redento e rinato nella saggezza; e i suoi risultati? Dimenticata l’ubriacatura del 2018, quando un elettore su tre lo scelse, il M5S odierno, amputato da uno stillicidio di espulsioni e abbandoni, compreso appunto quello del suo stesso capo politico, ha retto meglio del previsto, non lasciandosi poi molti voti indietro rispetto alla europee di tre anni fa. Forse questo 15% è il suo livello fisiologico, sul quale lavorare seriamente e con coerenza per consolidarlo. Certo, è anche un livello in un certo modo falsato, o almeno condizionato, dallo sbalzo territoriale napoletano rispetto al resto del Paese: un partito che aspira ad essere nuovamente nazionale non può trasformarsi in un circolo cittadino, con una concentrazione così forte in un unico punto mentre altrove è il deserto. Né consola essere il primo partito in quasi tutto il Sud, dove l’astensione è stata altissima, a livelli di emergenza democratica. A proposito di astensione e Movimento: tra il 2018 ed il 2022, l’astensione è aumentata di sei milioni di unità. Dal 2018 al 2022, il M5S ha perso sei milioni di voti. È ovvio che non si sia trattato di un travaso unidirezionale, emissari ed immissari in questi casi sono sempre molteplici, ma la coincidenza delle cifre ci fa pensare. Oggi è la Meloni, e non più Conte o Grillo, che è vista come l’alternativa al sistema

Ma Draghi?

…Ed ultimamente il sistema era rappresentato da Mario Draghi. Le elezioni sono, tra le altre cose, anche un momento di giudizio nei confronti del governo in carica. Non si può dire che gli italiani abbiano giudicato molto bene il Presidente del Consiglio, visto che, nel loro complesso, hanno votato largamente per le forze che son state più antidraghiane, o meno draghiane delle altre. Se paragoniamo una fantomatica coalizione pro-Draghi ad un fronte Draghi-scettico, vediamo che la prima arriva a non più del 34% (circa 9 milioni e mezzo in termini assoluti), il secondo, per quanto sia un pot pourri dalla estrema destra alla estrema sinistra, giunge al 65% (una ventina di milioni). Se le elezioni appena passate fossero state un referendum sull’esecutivo ed il suo Presidente, beh… Il risultato è palese.

Tre casi per tre partiti

Per vedere bene l’insieme, a volte è assai utile guardare al particolare. Ecco perché ci è sembrato concentrare l’attenzione su tre zone geografiche e dalle caratteristiche politiche peculiari, che permettono riflessioni ampie e generali.

Lombardia, la Lega si slega. Milano, Varese, Como, Lodi, Bergamo… pare proprio che il partito di Salvini abbia perso il legame storico con l’elettorato locale, che ne è stato la culla e la base da sempre. Nella più popolosa e ricca delle regioni italiane, la delusione e sfiducia verso il “capitano” si sono sentite pesantemente. È vero che nel vicino Veneto le cose sono andate persino peggio, ma il Veneto, col suo particolarismo, i suoi superleader locali come Zaia, è cosa a sé. Ci siamo concentrati sulla Lombardia per il significato storico e diremmo persino culturale che essa ha per la Lega: Si tratta di un vero abbandono non solo elettorale, ma, riteniamo, strutturale. Il lumbard di Alberto da Giussano forse ha smesso di avere un peso nazionale. Basti vedere il grafico: l’ascesa salviniana, che sembrava irrefrenabile, si è trasformata in un precipizio. Fratelli d’Italia ha fagocitato voti a palate, ma una parte dei leghisti (e dei forzisti) stavolta ha deciso di votare anche il terzo polo di Calenda e Renzi che proprio in Lombardia, e non in Toscana, ha raggiunto il risultato maggiore, oltre il 10%.

voti della Lega in Lombardia

Toscana, il PD perde dove vince. Il sistema piddino, con le sue mille ramificazioni ed il suo radicamento in ogni nodo socio-economico-burocratico, ha in Toscana avuto modo di reggere meglio che altrove. Nonostante la crisi corroda da anni consensi e assensi verso il partito, è qua, nella terra di Letta e Renzi, che si è svolta una delle partite più delicate. Alleati nelle amministrazioni, avversari ai seggi, con una quota di renziani molto alta ancora ben solidamente presente nelle sue fila, il PD vanta (con Bologna) il suo successo elettorale. Nardella e gli altri piddini di punta della regione parlano di “modello toscano”, di buona amministrazione premiata dai cittadini, di scelte sagge riconosciute, e cominciano a dettare i termini del prossimo congresso, non nascondendo velleità di segreteria. Ma occhio, i numeri, se non letti bene, possono ingannare: è vero, il PD in Toscana è rimasto il primo partito, ma ha perduto moltissimi voti, conseguendo il suo risultato peggiore di sempre. Anzi, è in Toscana che i dem hanno avuto il decremento percentuale più violento di tutti, essendo stati abbandonati dal 22% dei loro elettori nel periodo 2018-2022. A titolo di paragone, in Lombardia hanno avuto un decremento del 12% e nella burrascosa (elettoralmente) Napoli un decremento del 9 %. Insomma, sarà anche una vittoria, secondo i dirigenti locali, ma a noi sembra una bella batosta.

 

voti del PD in Toscana

Napoli capitale del M5S. Come abbiamo in precedenza sottolineato, Conte ha conseguito un grande risultato nella circoscrizione di Napoli e provincia: quasi mezzo milione di voti per un ottimo 41,4%. E lo ha fatto nonostante quella sia la patria dello scissionista Di Maio. Un risultato che peserà sulla struttura ed i programmi contiani, dato che questo bacino di voti va necessariamente conservato per continuare ad esistere. Ma l’accusa (preventiva, oltretutto) che alcuni commentatori e avversari politici hanno lanciato, cioè quella di raccogliere i consensi dei fruitori del reddito di cittadinanza (Renzi è andato oltre, evocando il voto di scambio), non solo suona essere alquanto offensiva verso i napoletani, si dimostra non provata. Infatti, se cercassimo un rapporto causa-effetto “concessione del RdC-voto al M5S”, non lo troveremmo: questo partito ha avuto il suo massimo e dilagante consenso nel 2018, quindi prima dell’approvazione stessa di quella misura. Addirittura arrivò al 54%. Dopo che il reddito è stato proposto, approvato e concesso, invece, il voto partenopeo si è, elezione dopo elezione, rivolto ad altri partiti. Nessuna riconoscenza o ricatto, dunque, ma un calo a precipizio dei consensi. Anzi, il creatore del RdC, Di Maio, ha raccolto stavolta un misero duepercento. Poi, questa ripresa, quest’ultimo guizzo, questa risalita, che ha sicuramente qualcosa di peculiare e che merita di essere indagata (ed è comunque lontana dai fasti del ’18), e che, visti i precedenti della zona (anche alle comunali), ci appare assai effimera, debole, non scontata.

voti del M5S a Napoli

In conclusione

Giorgia Meloni non ha vinto tanto le elezioni in quanto tali, non ha sfondato neanche quota 30%: ha vinto la competizione a destra. E visto che questo Paese da molti lustri tende a destra, il suo merito è quello di aver conservato questa tendenza. Grande demerito degli altri schieramenti è quello di non saper convincere, di non essere capace di attrarre, numeri di elettori tali da ribaltare il trend, e anzi di spingere, deludendoli, gli italiani verso il sempre più ampio fronte astensionista. La maggioranza parlamentare (grazie alla legge elettorale) appare solida e coesa, oggi, e sarà responsabilità della Presidentessa (si dirà così?) mantenerla e garantire la tanto agognata governabilità all’Italia. I suoi progetti sono ad ampio orizzonte, con tanto di riforma presidenzialista (già abbracciata dal duo Calenda-Renzi e del tutto identica alla proposta di revisione della Costituzione nell’ultima legislatura dal prof. Ceccanti del PD, il quale dopo duro scontro con Fratoianni si è fatto riassegnare il collegio di Pisa, che poi ha perso). Ma gli orizzonti della politica in Italia, tra cambi di casacca, ribaltoni, transfughi e personalismi, son sempre incerti e limitati. Le sfide sono però enormi. Non possiamo che fare gli auguri a tutti noi, e sperare di cavarcela senza drammi, anche stavolta.


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  1. Da Forza Italia in virtù della visione economica liberista e industrialista che Meloni predica da mesi (una bella parte della quale copiata pari pari dal forzismo di battaglia della prima ora), alla faccia del presunto populismo peronista, e dalla Lega per via di quel senso di fallimento che come un’aurea oscura si è appiccicato su Salvini dopo la sua estromissione dal Conte1, e per la sua partecipazione, evidentemente non gradita, al governissimo Draghi. []