L’origine antica di una riforma poco moderna. Breve storia delle riforme costituzionali

SPECIALE REFERENDUM COSTITUZIONALE2016/3

di Marco Ottanelli

 

Mentre, in attesa del 4 dicembre, lo scontro tra Si e No si fa sempre più acceso e le divisioni tra forze politiche sempre più nette, si accentua la distanza tra chi si fa vanto di aver avuto l’idea della riforma più bella del mondo, e chi invece la ritiene la sentina di ogni male della democrazia. Ma, alla fine dei salmi, si può riuscire a capire chi abbia scritto questo testo? Non per sfiducia nelle capacità dell’on. Ministra Elena Maria Boschi, nevvero, ma questa riforma è il frutto di un albero dalla radice profonda che va cercata nella nostra storia recente. Senza volerci perdere nei meandri delle idee sparse un po’ da tutti, idee a volte bislacche a volte meno, basti ricordare le “bozze” o proposte presentate a vario titolo nella “Prima” e soprattutto nella “Seconda Repubblica”.

La Cultura della Riforma: un’illusoria panacea per tutti i mali.

Cominciò Craxi, nei favolosi anni ’80. Mentre la commissione bicamerale presieduta dall’on. Aldo Bozzi, liberale, ipotizzava una prima bozza di bicameralismo non paritario, la sua, di Craxi, ricetta per salvare l’Italia da inflazione, disoccupazione, mafia, camorra, ‘ndrangheta, inquinamento, speculazione, terrorismo e terremoti era: presidenzialismo. Diceva Bettino: “vogliamo un Presidente della Repubblica forte, con grandi poteri, eletto direttamente dai cittadini. Vogliamo un uomo libero da lacci e lacciuoli per governare senza intoppi e senza la possibilità di essere sfiduciato”. Parlava ovviamente di sé stesso.

Mai fu presentata ufficialmente una proposta di revisione costituzionale in tal senso, ma, su un testo contenente quelle tesi scritto da Giuliano Amato, all’epoca vice di Craxi nel PSI, si scatenò ugualmente un estenuante dibattito culturale. Presidenzialismo sì, presidenzialismo no…la Sinistra, dal rifiuto assoluto iniziale, passò gradualmente al “si -forse- ma -però”, convertendosi al semipresidenzialismo, ibrido gollista. La provocazione craxiana aprì la breccia a due concetti che ritorneranno ciclicamente: la intangibilità del potente di turno (divieto di ribaltone, oggi detta meno rozzamente, governabilità) e la investitura popolare che crea e legittima il potente stesso.

Continuò Segni, nei favolosi anni ’90. La sua ricetta per salvare l’Italia da inflazione, disoccupazione, mafia, camorra, ‘ndrangheta, inquinamento, speculazione, terrorismo e terremoti era: maggioritario. E maggioritario, plebiscitariamente, fu. Sparirono le preferenze, e si dettero immani premi di maggioranza al vincitore (questo vuol dire “maggioritario”). Quello era il “Mattarellum”, quello era il “Porcellum”, quello, un maggioritario, sarà il cosiddetto “Italicum”. Ma la pulce della riforma dello Stato era entrata nell’orecchio dei politici nostrani. Mentre Gianfranco Miglio e la Lega Lombarda di Bossi scatenano il pandemonio federalista, ritorna il diffuso bisogno di semipresidenzialismo. Di uomo forte. Nel 1993 il Parlamento istituisce una Commissione Bicamerale per le Riforme, presieduta dapprima da Ciriaco De Mita (DC) ed in seguito da Nilde Iotti (PDS). La Commissione Iotti affronta per la prima volta in sede ufficiale il tema della forma di Governo, e apre quindi un’altra breccia. Forza Italia ne approfitta, e, nel suo programma elettorale del 1994 ripropone il “modello francese”; il primo governo Berlusconi vara un Comitato di studio per le riforme, i cui lavori si concludono con un progetto che prevede, per la forma di governo, due alternative: il modello semi-presidenziale (quello francese, appunto) e il modello del governo di legislatura con premier elettivo, di stampo britannico. Come se fossero la stessa cosa, peraltro. La sinistra si lascia trascinare in un simile dibattito, e si distribuisce su variegate e diverse posizioni, tutte presidenzialiste, ma – alternativamente – alla francese, alla polacca, alla messicana, alla portoghese, alla finlandese. D’Alema opta per il presidenzialismo alla austriaca, come la sachertorte. Ma arriva lo scossone: cade il governo Berlusconi I, (il cosiddetto “ribaltone”: una tanto semplice quanto costituzionalissima sfiducia), e si va avanti con il tecnico Dini, ex ministro del governo appena caduto, passato al centrosinistra.

E poi l’inciucio.

Nel 1996, avviene qualcosa che anticipa tutto quello che oggi i Bravi Difensori della Costituzione annunciano di voler combattere: un accordo che ha, al suo primo punto, proprio quello di rafforzare e blindare il premierato. La scansione dei tempi è più efficace di qualsiasi doviziosa narrazione.

11 gennaio 1996: Dini si reca al Quirinale per rassegnare le dimissioni. Il Presidente Scalfaro si riserva di decidere e invita il Governo a restare in carica per il “disbrigo degli affari correnti.” Il Presidente della Repubblica inizia le consultazioni;

24 gennaio 1996: Il Giornale (il quotidiano di proprietà di Berlusconi) rende nota la cosiddetta “Bozza Fisichella“, ovvero una bozza di riforma istituzionale predisposta dai parlamentari Bassanini (DS), Salvi (DS), Urbani (FI) e, appunto Fisichella (AN), che vuole intervenire su: federalismo, presidenzialismo, poteri del parlamento, giustizia. Dunque, un quartetto di “neocostituenti” si arroga il diritto di cambiare la Costituzione, e in ogni sua parte. (Ma chi li aveva delegati, scelti, incaricati?)

25 gennaio 1996: Berlusconi e D’Alema duettano a Porta a Porta, annunciando ai telespettatori l’accordo in atto tra i loro partiti. I “comitati Prodi” , nati per sostenere il candidato dell’Ulivo, entrano in crisi, Prodi stesso rilascia dichiarazioni sconcertate. DS e Forza Italia adesso devono scegliere l’uomo giusto per fare le riforme. E l’uomo giusto c’è.

1 febbraio1996: dopo aver effettuato le consultazioni, Scalfaro conferisce l’incarico per la formazione del nuovo governo al prof. Antonio Maccanico.

2 febbraio 1996: Berlusconi annuncia ai suoi l’accordo con Massimo D’Alema: “di lui mi fido”. In una circolare ai club di Forza Italia vieta l’uso della parola “inciucio”, e suggerisce la formula “governo dei migliori”.

9 febbraio 1996: D’Alema si reca a cena con Berlusconi a casa di Gianni Letta per mettere a punto il programma comune di governo. E’ la prima di una lunga serie di cenette intime tra il Cavaliere, il suo uomo di fiducia ed esponenti DS.

10 febbraio1996: Il Presidente del Consiglio incaricato Maccanico si reca al Quirinale per illustrare un preambolo programmatico, nel quale si afferma tra l’altro: “Ho constatato che esiste in questo Parlamento una larghissima maggioranza disposta ad impegnarsi in un’opera immediata di revisione dell’ordinamento della Repubblica secondo un preciso modello istituzionale… E’ emersa la determinazione largamente maggioritaria a perseguire una riforma organica e coerente che partendo da una profonda revisione della forma di Stato attraverso la costruzione di un ordinamento di federalismo cooperativo e solidale, investa anche la revisione della forma di Governo e giunga alla fine alla riconsiderazione della riforma delle leggi elettorali politiche… anche col “conferimento di una posizione di netta preminenza al Presidente del Consiglio in seno al Governo” e “l’investitura popolare diretta del Capo dello Stato” e con “l’innesto, sugli attuali poteri del Presidente della Repubblica, di poteri di governo…Riguardo alla procedura, la maggioranza è favorevole alla costituzione di una Commissione bicamerale, formata su base proporzionale, con poteri referenti.”

Maccanico annuncia inoltre che Berlusconi e D’Alema saranno i suoi due Vicepresidenti del Consiglio.

10-14 febbraio 1996: I “giustizialisti” di AN si mettono di traverso. Una parte di F.I. rifiuta l’alleanza con i DS. (Nessuno nei Ds rifiuta l’alleanza con F.I., ndr). Berlusconi pone il veto a Caianiello come guardasigilli: vuole al suo posto Baldassarre. Scalfaro pone il vero a Baldassarre. Prodi cerca spazi e alleanze, e qualcosa, tra gli esclusi nei posti chiave, trova.

14 febbraio1996: Maccanico rinuncia all’incarico. Si passa alle elezioni.

Nell’aprile del 1996, si va al voto in un clima di diffidenza tra alleati stessi. Vince l’Ulivo e Prodi forma il governo. Ma il segno che la bozza Salvi-Bassanini-Fisichella-Urbani-Maccanico ha lasciato è molto profondo. Innanzi tutto, il programma dell’Ulivo prevedeva il “governo del primo ministro”. In secondo luogo, proprio Antonio Maccanico viene nominato ministro delle Poste e Telecomunicazioni. Dopo il continuo reiterare di Decreti Legge che prorogavano la legge Mammì (legge che aveva salvato Fininvest e Berlusconi dalla palese illegalità delle loro posizioni), dichiarata incostituzionale nel 1994, Maccanico scrive una altra legge salva-Berlusconi che, tra le altre cose, proroga sine die le frequenze a Rete4. Tale legge sarà dichiarata anch’essa incostituzionale nel 2002.


La Bicamerale

Caduto nel 1998 il governo Prodi, il nuovo Presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, nomina Maccanico ministro delle Riforme Istituzionali, carica che manterrà anche nel successivo governo Amato. Rifondazione Comunista esce dalla maggioranza, mentre entrano l’Udeur di Cossiga, Scognamiglio e Mastella, ed altri gruppi minori.

Massimo D’Alema viene eletto presidente della “Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali” istituita il 24 gennaio 1997, come da accordi presi ai tempi della bozza Fisichella((Ne facevano parte, tra gli altri, Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini, Achille Occhetto e Sergio Mattarella.)). Si sfornano leggi sulla giustizia come piovesse. Si cominciano a elaborare le cosiddette “bozze Boato”, dal nome del Verde che ne imbastisce ben sette. Si progetta di rivedere decine e decine di articoli della Costituzione. Mentre la Lega Nord non si degna di presentare proposte (Bossi preannunciava piuttosto la secessione, e via), la maggioranza di governo di centrosinistra si divide fra semi-presidenzialisti, fautori del governo del primo ministro e fautori del parlamentarismo razionalizzato alla tedesca; il maggior partito di opposizione, Forza Italia, presenta sia un progetto semi-presidenziale secondo il prototipo francese sia un modello fondato sull’elezione diretta del primo ministro. Come se fossero la stessa cosa, peraltro.

Una parte (piccola) della sinistra parlamentare, alcuni magistrati capitanati da Borrelli e Caponnetto, giornali e riviste progressiste e una crescente massa di elettori e cittadini di sinistra hanno nel frattempo cominciato a criticare, avversare, a opporsi a questo progetti, i più spinti da antiberlusconismo che da altro, ma l’impatto si sente. Travolto dalle proteste, il presidente D’Alema compie un atto che ha dell’incredibile: il 13 aprile 1997 segreta i lavori della commissione. Le riforme della Costituzione sono sottratte così al pubblico dibattito (ma non a quello parlamentare). Una decisione senza precedenti a livello mondiale, rivista solo col Patto del Nazareno.

Via della Camilluccia.

In via della Camilluccia, a Roma, abita Gianni Letta, l’uomo che regge le chiavi del cor di Berlusconi. In quella terrazza romana, si celebra una famosa cena, e si stringe un famoso patto; il 18 giugno 1997, che la famosa crostata ci fosse o no, (alcuni protagonisti affermano serissimi che si trattava di una cassata siciliana), nuovi autoproclamati «padri costituenti» (D’Alema, Ds; Berlusconi, FI; Fini, AN; Marini, PPI; Tatarella, AN; Nania, AN; Mattarella, l’attuale Presidente della Repubblica, PPI, Salvi, DS, e lo stesso Letta, all’epoca privato cittadino) giocano agli apprendisti stregoni con la nostra democrazia, e in una improvvisata costituente attorno al tavolo, tra una portata e l’altra, stabiliscono i poteri del Capo dello Stato e i relativi poteri del Primo Ministro. La Nuova Costituzione comincia a prendere forma: stop ai giudici, federalismo, poteri forti al vertice, inamovibilità della maggioranza di governo… tutto torna, tutto si compie. Tutto ritornerà nella futura riforma del Polo.

Nel 1999 D’Alema si dimette colpito dal risultato negativo delle regionali. L’ultima parte della legislatura è impegnata nella riforma del titolo V della Costituzione. Viene introdotto di fatto il federalismo regionalista. La riforma, approvata a poche settimane dal voto per il nuovo Parlamento, passa con soli 4 voti di maggioranza, creando un pesantissimo precedente.

Avanti, riciclando materiali

L’insieme di tutte queste bozze e proposte saranno raccolte in quella commedia per il popolo detta dei “Quattro Saggi di Lorenzago”, ovvero dalla tre giorni trascorsa appunto nella località di Lorenzago in Cadore da quattro incaricati del centro destra (Andrea Pastore, F.I.; Francesco D’Onofrio, Udc; Roberto Calderoli, Lega; Domenico Nania, An) che avrebbero riscritto, in così poco tempo, mezza Costituzione. In realtà essi misero in ordine le proposte precedenti, e le presentarono a Berlusconi, che le approvò. Era il 2003. E nel 2005 la Riforma berlusconiana venne formalizzata in una legge costituzionale che prevedeva interventi su: bicameralismo, regioni, presidente del consiglio, presidente della Repubblica e organi di garanzia. Sarebbero stati interessati un gran numero di articoli, cinquanta.

Chiunque voglia leggersela, si renderà conto di quanto essa assomigliasse, nei principi, negli enunciati e nella sostanza, alla riforma Renzi-Boschi. La parte sul Senato è poi straordinariamente simile, anche se oggi molti fautori del SI lo negano, andando ad esaltare le inevitabili differenze, salvo che nella questione della elezione dei senatori, che era prevista ancora per suffragio universale (e pensare che vi si oppose, l’attuale PD, la chiamava riforma golpista…) anche se con funzioni regionali((Ecco quanto la riforma del 2005 prevedeva sul Senato:

Tra le principali linee direttrici del testo di riforma costituzionale figura in primo luogo la riforma del bicameralismo la quale, abbandonando il sistema del c.d. bicameralismo “perfetto”, introduce significative differenze tra le due Camere con riguardo a composizione e funzioni.
Quanto alla composizione, si prevede il ridimensionamento del numero dei parlamentari: i senatori passano da 315 a 252 e i deputati da 630 a 500; a questi si aggiungono i 18 deputati eletti all’estero[4]e i deputati di diritto e a vita, che prendono il posto degli attuali senatori di diritto e a vita (si tratta degli ex Presidenti della Repubblica nonché dei deputati di nomina presidenziale, il cui numero complessivo è limitato a tre, in luogo degli attuali cinque senatori).
L’età minima per il conseguimento dell’elettorato passivo alla Camera si abbassa da 25 a 21 anni.
Trasformazioni ancor più profonde interessano il Senato che, mutando la sua denominazione in “Senato federale della Repubblica”, evidenzia l’opzione federalista del progetto di riforma, che pure non attribuisce direttamente alla Repubblica la qualifica di “federale”[5]: in tale organo si intende principalmente realizzare il raccordo tra le potestà normative delle autonomie e quelle dello Stato.
I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto “su base regionale”. La connessione tra il sistema politico delle Regioni e quello nazionale è data da vari fattori, e in primo luogo dalla piena corrispondenza tra la durata in carica di ciascun consiglio regionale e quella dei senatori eletti nella medesima Regione: le rispettive elezioni sono contestuali, il che equivale a dire che il Senato non ha più una durata predefinita ma è soggetto a rinnovi parziali, più o meno ampi, in occasione del rinnovo dei singoli consigli regionali (o, nella Regione Trentino Alto-Adige, dei consigli delle province autonome di Trento e di Bolzano).
Il sistema elettorale, rimesso alla legge dello Stato, dovrà “garantire la rappresentanza territoriale da parte dei senatori”. Quanto all’elettorato passivo, in ciascuna Regione sono eleggibili a senatore gli elettori che hanno compiuto i 25 anni di età (in luogo dei 40 anni oggi richiesti)

Il testo completo della legge costituzionale è consultabile a questo link)).

Ma al referendum confermativo del giugno 2006, gli italiani dissero NO al progetto, ed esso quindi decadde((La affluenza alle urne fu piuttosto bassa, il 52,46%, ma i NO furono ben il 61,29% dei voti validi.)). Ovviamente non decadde però l’intenzione, la tentazione, tanto è vero che nel 2007, legislatura di centrosinistra, ci provò Luciano Violante, con una proposta sul Senato che sembra essere stata ricalcata poi dalla ministra Boschi((Si parla del testo unificato presentato alla Camera dei deputati nella XV Legislatura, al termine dell’esame di numerosi progetti di riforma costituzionale da parte della Commissione Affari costituzionali presieduta dall’on. Luciano Violante, integrato dalle modifiche apportate in Aula ai primi tre articoli del progetto nel corso del relativo esame svoltosi tra i mesi di ottobre 2007 e gennaio 2008. Il progetto di riforma, che ottenne anche il parere favorevole con osservazioni da parte della Commissione parlamentare per le questioni regionali, in specie prevedeva l’istituzione di una Camera federale, nella quale potessero trovare rappresentanza gli interessi delle Regioni e delle Autonomie locali, composta da membri eletti, con voto limitato, dai Consigli regionali e dai Consigli per le autonomie locali di ciascuna Regione, in proporzione alla consistenza demografica, sulla base di un sistema elettorale unico previsto con legislazione statale. Pertanto, la proposta in esame, prendendo a riferimento il modello a elezione indiretta tipico del Bundesrat, contestualizzava il mandato dei senatori alle vicende politico-istituzionali della rispettiva Assemblea regionale. Si prevedeva, ovviamente, una modifica complessiva ma non generica del procedimento di formazione delle leggi, prospettando che solo per alcune materie sarebbe stata necessaria l’approvazione di entrambe le Camere.)). Ovviamente egli oggi è uno sponsor del SI, ed è arrivato addirittura a paragonare per importanza ed effetti il referendum del 4 dicembre addirittura al referendum “Monarchia o Repubblica” del 1946…((In quei termini si esprime Violante nell’articolo “La proposta del SI è concreta, il NO fa solo critiche” pubblicato sul Corriere della Sera il 1° novembre 2016))

Anche il governo Letta, nel 2013, si impegnò in questa direzione, nominando un comitato col patrocinio di Napolitano, presieduto da Quagliarello((Il “comitato dei saggi” comprendeva politici di un po’ tutti i partiti (tranne il M5S), esponenti di istituzioni come l’Autorità per la Concorrenza, e vari costituzionalisti. I nomi, linkati verso la loro biografia, sono: Valerio OnidaMario MauroFilippo BubbicoLuciano ViolanteGiovanni PitruzzellaEnrico GiovanniniSalvatore Rossi, Enzo Moavero MilanesiGiancarlo Giorgetti. Da notare la presenza di Onida, oggi contrario alla riforma.)), che ipotizzò nuovi dettagli (l’abolizione del CNEL, ad esempio, idea riesumata dalla Bicamerale), ma senza discostarsi troppo dai lavori passati.

Non possiamo assolutamente dimenticare né minimizzare il focale passaggio del “Patto del Nazareno”, siglato il 18 gennaio 2014 e che scavalcava, anzi, seppelliva il legittimo lavoro del governo Letta. A differenza delle commissioni parlamentari, delle bozze, delle proposte dei vari comitati di saggi, di questi incontri non esistono verbali, e se esistono sono segreti. Come tutti sappiamo negoziarono l’allora privato cittadino Silvio Berlusconi (non più parlamentare essendo stato dichiarato decaduto da senatore il 27 novembre 2013 a causa della sua condanna penale) e l’allora semplice sindaco di Firenze e segretario del PD, Matteo Renzi: per la prima volta nella storia d’Italia due non-parlamentari, due non-rappresentanti del popolo, due non-legittimati a…legiferare, in un vertice privato, segreto, esclusivo, senza dibattito pubblico, senza votazioni, senza alcun passaggio parlamentare, e, ripetiamo, senza verbalizzazione, si son messi a discutere e modificare la Costituzione, nata e legittimata in una apposita assemblea eletta a suffragio universale.

A questo punto, solo a questo punto, oltre alla modifica della legge elettorale (che è un argomento para-costituzionale, ma che non rientra nei temi del referendum), si cominciano a delineare le linee effettive della proposta “renziana” che poi tanto renziana, dunque, non è.

Perché la “mano” di Berlusconi, condannato, all’epoca ancora scontava la pena, è pesante e determinante.

L’incontro che precisa il testo delle riforme costituzionali avviene, stavolta a Palazzo Chigi, il 14 aprile 2014. Renzi è già diventato Presidente del Consiglio, ma invece di far scrivere le riforme dai suoi ministri, le scrive con il capo non eletto in parlamento di un partito di opposizione. Quel giorno si definiscono in particolare la riforma del Titolo V (le autonomie regionali) cioè la riforma della riforma dell’Ulivo, e la formulazione del nuovo Senato, la sua composizione, la sua modalità di elezione indiretta.

Mentre esponenti del PD e di Forza Italia si incontrano periodicamente per definire i dettagli, Renzi e Berlusconi hanno un ultimo vertice il 6 giugno 2014. È importante notare che, prima di essere formalizzato da un testo presentato in Parlamento, l’insieme delle proposte viene vagliato (e approvato) dalla Assemblea Nazionale del Partito Democratico e da una sorta di assenso senza voto di Forza Italia, da quelle cioè che sono, stante le nostre leggi, due associazioni private che non rappresentano altro che sé stesse. Una ben curiosa legittimazione. L’intermediario di questo accordo, il preparatore, l’organizzatore, fu Denis Verdini (non a caso fiorentino come Renzi ed i suoi seguaci più diretti, in seguito entrato in maggioranza).

Nelle mani di Renzi e della Boschi sono quindi finiti faldoni e faldoni di lavori precedenti, elaborati, nel corso di un paio di decenni, da quasi tutte le forze politiche, che sono stati poi diligentemente messi in un ordine il più possibile coerente dalla squadra di tecnici e specialisti del Ministero per le Riforme. Ne è uscita la proposta di legge 1429 presentata al Senato l’8 aprile 2014, e firmato appunto dagli stessi Boschi e Renzi. I quali non hanno avuto difficoltà alcuna a mutare il loro orientamento e la loro idea rispetto al destino del Senato: in particolare Mattero Renzi aveva sempre parlato, quando era ancora sindaco di Firenze, della sua volontà di abolire il Senato, non di trasformarlo, facendo diventare così l’Italia un un paese monocamerale, non a bicameralismo imperfetto o differenziato; Evidentemente in corsa per la conquista del segretariato del PD e per il ruolo di Presidente del Consiglio, ha ritenuto di valutare ogni possibilità, tanto che nel suo programma per le primarie, la parola “Senato” non compare neanche una volta, anche se adesso sembra che per lui ed i suoi fedelissimi sia questo il punto centrale dei destini del Paese.

All’esame del Parlamento, Il testo iniziale del governo è stato profondamente modificato, qua e là migliorato, integrato, a volte peggiorato. Esso ha subito una profonda riscrittura al Senato, grazie soprattutto al lavoro dei relatori, Anna Finocchiaro (Pd) e Roberto Calderoli (Lega)((È proprio di Roberto Calderoli la proposta di mantenere ai nuovi senatori (i consiglieri regionali prescelti) le garanzie di insindacabilità e di immunità ex art. 68 Cost. Proprio dell’esponente di quel partito che oggi avversa con vigore suo tipico la riforma.)), oramai stabile nella carica virtuale di Padre Costituente dopo moltissimi anni. Gli emendamenti approvati sono stati decine, modificando ben 27 dei 43 articoli della proposta governativa. Poi una serie di modifiche ed emendamenti (calcolati in circa il 10-15% del testo uscito dal Senato) sono stati approvati anche alla Camera (18 articoli modificati su 45). Infine il Senato ne ha approvati altri sette e ne ha ritoccati 4, in un paio di casi ripristinandoli come li aveva votati in precedenza. Il testo così rimodellato, dell’ottobre 2015, è diventato quello definitivo, votato dalla Camera l’11 gennaio 2016, nuovamente approvato dal Senato il 20 gennaio e – infine – per la seconda volta alla Camera il 12 aprile 2016. La riforma, ci dicono, sarà la ricetta definitiva per salvare l’Italia da inflazione, disoccupazione, mafia, camorra, ‘ndrangheta, inquinamento, speculazione, terrorismo e terremoti.

Per rispondere quindi alla domanda iniziale (“chi ha scritto la riforma”?), possiamo dire che paradossalmente essa è di tutti e di nessuno. O forse possiamo dire che tutti((Fatto salvo il Movimento Cinque Stelle, che ha però una idea di riforma totale del sistema, che sfiora la rivoluzione: la democrazia diretta plebiscitaria basata su web, o qualcosa del genere)) hanno ereditato un depositato di proposte, alle quali hanno voluto aggiungere o togliere elementi e dettagli, in un crescendo di confusione normativa che, purtroppo, si fa notare assai, nel testo che andremo ad accettare o respingere. Ci sono parti del PD che oggi rigettano idee che essi stessi avevano formulato nel passato, ci sono altre parti della maggioranza che difendono come irrinunciabili altre idee alle quali non avevano mai dato importanza; ci sono padrini e madrine della riforma che hanno fatto copia incolla da proposte dei loro avversari, e ci sono avversari incolleriti che hanno contribuito come pochi altri al progetto finale, in prima, primissima persona, scrivendo riforme identiche a quella che ora dichiarano essere un orrore. Un nome su tutti: Silvio Berlusconi, che ha ritirato l’appoggio alla riforma dal suo stesso partito voluta e votata in Parlamento per una sorta di rottura che si è verificata tra lui e Renzi sulla elezione di Mattarella. Si vede che Berlusconi ha scordato non solo ciò che ha pensato e scritto assieme al segretario del PD, ma anche che Mattarella fu suo commensale alla Camilluccia…

Seguire le propagande dei partiti sul SI o sul NO non contribuisce a fare chiarezza, né potrebbe mai contribuire a farlo, perché appunto i partiti stessi si sono persi dietro i loro voltafaccia o indecisioni, le loro divisioni interne ed i loro interessi esterni. Salvo eccezioni, naturalmente. Per valutare appieno cosa e perché votare, l’unico mezzo è informarsi con attenzione e valutare effetti, esiti e conseguenze a lungo termine della propria scelta.


Per approfondire, gli altri articoli del nostro “speciale referendum”:

1. Il bicameralismo perfetto non è il problema. In difesa del Senato elettivo. senza particolare passione, ma rigettando le menzogne.

2. Come saranno approvate le leggi con la riforma costituzione Renzi-Boschi.

4. Elezione, funzioni ed organizzazione del nuovo Senato. Va’ dove ti porta il vento.

5. CNEL, Presidente della Repubblica, Corte costituzionale e parità di genere.

6. Che fine fanno le regioni? Il nuovissimo Titolo V fa marcia indietro sul federalismo.

7. Le lezioni da trarre dai numeri del referendum.