Il referendum sulla “privatizzazione” dei Servizi Pubblici Locali. Una panoramica sulle leggi, e gli effetti della eventuale abrogazione

di Marco Ottanelli e Gabriele Pazzaglia

«Volete Voi che sia abrogato l’art. 23-bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e finanza la perequazione tributaria”, convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99, recante “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”, e dall’art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, recante “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea”, convertito, con modificazioni, in legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale?»

 

L’articolo oggetto del referendum (art. 23 bis del DL 112 del 2008) è il punto finale di una tendenza alla privatizzazione della gestione dei servizi pubblici che è in atto nel nostro paese da almeno 20 anni. La prima legge in questo senso è infatti la 142 del 1990 la quale introduceva criteri imprenditoriali nella gestione delle aziende municipalizzate alle quali veniva assegnato un proprio patrimonio con l’obbligo di pareggiare il bilancio. Nel 1994 la legge n. 36 (cosiddetta legge Galli) introduce gli ATO (ambiti territoriali ottimali), le zone all’interno delle quali gli enti locali affidano il servizio ad un unico operatore, ma la svolta, se così la vogliamo chiamare, arriva con la legge Bassanini del 1997 la quale prevede agevolazioni fiscali per la trasformazione delle vecchie aziende speciali in società per azioni con l’obbligo, in caso di trasformazione, della cessione di una quota della stessa.

Altre formule di liberalizzazione, che sono poi la base della attuale normativa, sono introdotte dai decreti Burlando e Letta (Enrico, non Gianni!)

In quella stessa legislatura, nel 1999, il centrosinistra arriva addirittura ad approvare (ma solo al Senato, la caduta del Governo D’Alema lo blocca alla Camera) il ddl 7042 il quale prevedeva l’obbligo, senza nessuna alternativa, di assegnazione, tramite gara, di tutti i servizi pubblici locali di “rilevanza industriale” quindi anche acqua, gas, energia, rifiuti, trasporti((Spadoni, B. Intervento pubblico e mercato nella gestione dei servizi pubblici locali, in Robotti. Competizione e regole nel mercato dei servizi pubblici locali, Bologna, Il Mulino 2002)). Regola ancor più radicale di quella oggi oggetto del referendum!

Le norme così stratificatesi confluiscono, in un tentativo di razionalizzazione, negli articoli 112 e seg del Testo Unico degli Enti Locali (il d.lgs 267/2000) ma, contemporaneamente, si apre un periodo di grande incertezza e confusione legislativa perché, da una parte, la riforma del Titolo V frammenta, tra Stato e regioni, le competenze legislative in questa materia e, dall’altra, l’Unione Europea impone che la normativa rispetti il diritto comunitario.

Le prime regioni dove si costituiscono gli ATO sono la Toscana ed il Lazio, allora entrambe governate dal centrosinistra.

Nel corso del tempo, si alternano continue modifiche legislative settoriali ad interventi giurisprudenziali fino all’approvazione dell’art. l‘art. 23-bis del cosiddetto Decreto Ronchi (il 122 del 2008), anch’esso più volte modificato, sul quale si svolge appunto l’attuale votazione. Benché il Comitato promotore del referendum abbia concentrato la sua comunicazione sulla gestione dell’acqua, l’oggetto del terzo quesito è ben più ampio perché le norme in questione si riferiscono all’«affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica». Non solo l’acqua, quindi, ma tutti i servizi che siano al contempo:

  1. rivolti al pubblico e non all’amministrazione (come invece sarebbe, ad esempio, il servizio di pulizia degli edifici pubblici)
  2. di rilevanza economica, cioè che possono essere oggetto d’impresa (quindi è escluso, ad esempio, il servizio scolastico).
  3. quando la tariffa è pagata dagli utenti e non dall’amministrazione (in caso contrario, come ad esempio la cura del verde pubblico, si applica la disciplina comunitaria sugli appalti).

Se queste condizioni sono riunite si applica l’art. 23-bis il quale impedisce all’ente pubblico di gestire direttamente questi servizi (come l’acqua) obbligandolo invece ad individuare, tramite gara, un privato, o per conferirgli la gestione del servizio, o per costituire assieme ad esso una società mista nella quale il privato detenga almeno il 40%.

La legge lascerebbe un’altra possibilità: l’ente potrebbe formare quella che il diritto amministrativo, definisce “società in house” (una società che, seppur formalmente di diritto privato, risponde comunque a logiche di interesse pubblico e non di ricerca del profitto perché è totalmente controllata dall’amministrazione) e a questa società l’ente potrebbe affidare la gestione senza passare per la gara. Però questa possibilità è solo teorica perché può essere attuta solo quando «situazioni eccezionali non permettono un efficace e utile ricorso al mercato», condizione che, come rilevato dalla Corte dei Conti in una sua decisione, è limitata «a casi del tutto eccezionali (se non inesistenti), data la difficoltà di individuare ipotesi di impossibilità di ricorso al mercato in presenza di servizi locali»((Corte conti, sez. autonomie, deliberazione n. 13/2008 del 16 settembre 2008)). Quindi, essendo di fatto impercorribile, per l’ente pubblico, la possibilità di gestire il servizio con una società da esso totalmente controllata, l’ente locale è giocoforza obbligato a affidare la gestione del servizio a privati.

Detto questo: che cosa succederà nel caso in cui vinca il «Sì»? La Corte costituzionale, nella sentenza che ha dichiarato ammissibile il referendum ha spiegato (al punto 5.1) che l’abrogazione di queste norme non determina più l’applicazione delle norme precedenti, oramai eliminate, ma l’applicazione di quelle di origine comunitaria ricavate dai trattati istitutivi così come interpretati dalla Corte di Giustizia dell’Unione e dalla Commissione europea.

Questo vuol dire che per gli enti locali non sarà più obbligatorio affidare la gestione dei servizi pubblici (e quindi anche dell’acqua) a privati. Ma non vorrà dire che ciò gli sia impedito.

Al contrario, il diritto europeo (art. 106 del trattato sul funzionamento dell’UE) bilancia due esigenze contrapposte: da una parte garantire la concorrenza come regola generale (in un’idea di efficienza) e, dall’altra, permettere ai pubblici poteri di derogare ad essa quando sia necessario l’intervento pubblico. Inoltre, visto che sia l’ordinamento comunitario che quello nazionale si fondano sul principio di autonomia degli enti locali, la decisione di sottrarre o meno un servizio pubblico alle regole della concorrenza rimane comunque a comune, provincia e regione, i quali saranno liberi di decidere se erogare direttamente il servizio o affidarlo comunque a privati. Il diritto europeo interviene infatti in un secondo momento: se gli enti locali decidono di affidare il servizio a un privato dovranno farlo con gara ad evidenza pubblica (perché, essendo l’acqua un monopolio naturale, e quindi risultando impossibile una concorrenza nel mercato, la UE impone che questa concorrenza sia almeno per il mercato). Per questo, per i cittadini che vivono in comuni dove, la gestione risultava già privatizzata prima del Decreto Ronchi (come Firenze e Roma) non cambierà sostanzialmente nulla. Diverso è il discorso per gli abitanti di comuni dove il servizio e ancora erogato dal pubblico (come Milano), il quale non sarà obbligato ad affidarlo a privati.

Quindi il referendum non introduce nessun divieto di privatizzazione nella gestione né tantomeno smonta, smantella, elimina, le privatizzate o partecipate già in funzione da anni. La vittoria del Sì lascerà la situazione invariata: sarà l’ente locale a decidere se privatizzare la gestione.

È qua necessaria una postilla: il comitato per il NO (nel quale ufficio di Presidenza figura, non a caso, Franco Bassanini, autore della legge del ’97!), costituito da professori universitari, esponenti del Partito Radicale, del Partito Democratico (capeggiati da Luigi Antonio Madeo), dell’UDC e di altri partiti, illustra in termini entusiastici i vantaggi della gestione degli acquedotti dei privati rispetto alle gestioni pubbliche (carrozzoni antieconomici, secondo loro).

Ebbene, questa semplificazione è da rigettare, allo stato effettivo delle cose. Tutte le numerosissime città italiane ove si sia deciso di far gestire il servizio idrico da partecipate e privatizzate, hanno visto la nascita di una pletora di consigli di amministrazione, presidente, vicepresidenze, ben poco utili al cittadino, e parallelamente lievitare le tariffe fino a livelli inaccettabili. Aumenti come quelli di Viterbo (+53,4%), Treviso (+44,7%) Palermo (+34%) nel solo periodo 2008-2009.

Da quando si sono costituite le partecipate, gli utenti toscani hanno subito continui aumenti annui :  Massa Carrara (Gaia spa) + 20,7%, Pisa (Acque Spa) + 14,2%, e Firenze, Pistoia e Prato, (Publiacqua) +11,4% (sempre nell’intervallo 2008-2009), portando Firenze ad essere la più cara di Italia, più cara del 400% di Milano (che ha conservato l’acquedotto pubblico). Ulteriori aumenti sono poi seguiti tra il 2009 ed il 2010 (ultimo dato disponibile).

È importante notare come Publiacqua è controllata al 40% da una società privata (acque blu) che, tra i suoi soci, vede l’immancabile Monte dei Paschi e, al 68%, Acea.

A sua volta, Acea ha come azionista all’11% la multinazionale francese Suez, e al 15% Francesco Gaetano Caltagirone, imprenditore romano dalle molteplici attività, e il Comune di Roma. Che quindi, controlla indirettamente la gestione idrica di mezza Toscana, e ne determina prezzi e tariffe. Un paradosso di commistioni pubbliche-private che parte dal 2003 (Acea entra negli acquedotti romani e laziali), passa dal 2005 (arriva a Firenze e Toscana) e raggiunge, nel 2011, ben 8,5 milioni di utenti in tutta Italia, e diventando il primo distributore nel Paese. Quindi, appare chiaro come poche e precise persone abbiano le mani (ed interessi precisi) sui destini dei nostri acquedotti e della loro redditività.

Insomma, una serie di scatole cinesi che, una volta aperte, ci fanno scoprire tre cose: A) privatizzare la gestione degli acquedotti ha comportato una impennata delle tariffe non sempre comprensibili B) la privatizzazione – o compartecipazione- c’era ben prima della legge Ronchi, ed ha abbondantemente prodotto i suoi effetti. C) la parte politica non conta: si è “privatizzato” a destra, al centro, e, forse soprattutto, a sinistra, il che pone un velo di incertezza sulle future politiche nel settore, che non è quindi detto che siano alternative alla norma oggetto di referendum