M5S: Lo strano caso di un partito “dal basso” rifondato “dall’alto”, che da populista diventa neo-DC.

di Gabriele Pazzaglia

Sotto i nostri occhi sta avvenendo una delle più importanti operazioni politiche degli ultimi anni, destinata ad avere effetti pesanti sul sistema dei partiti e sulla rappresentanza del Popolo italiano: il Movimento 5 Stelle ha avviato un percorso di profonda trasformazione. Il cambio di passo era nell’aria di alcuni mesi: già nello scorso ottobre il Presidente della Camera Fico scriveva che il movimento “non potrà essere più quello delle origini, ma da quelle radici deve comunque trovare nutrimento”. Un modo suadente per dire che qualcosa doveva cambiare. Ma cosa? Capirlo non è facile perché le dichiarazioni ufficiali sono generiche, vaghe e ambigue così da renderle a volte indistinguibili l’una dall’altra. Proprio per questo è opportuno riavvolgere il nastro di quello che è avvenuto per sbrogliare la matassa della contesa.

Come il M5S è arrivato a questo punto.

L’inizio di questa fase rifondativa non è facile da indicare con certezza. Certo è che la svolta nel Governo giallo-verde impresse sin da subito un mutamento, una moderazione, a tante istanze del M5S. Già prima della emergenza pandemica il populismo fu mandato in soffitta in quattro e quattr’otto e sostituito da un europeismo un po’ improvvisato; i decreti sicurezza furono depotenziati (nonostante Di Maio ne avesse rivendicato la paternità proprio durante le consultazioni per il Governo Conte II); i Ministeri del Lavoro e delle Infrastrutture, centri decisionali fondamentali per realizzare il programma del M5S, furono ceduti al PD. Ma se qualcuno non fosse stato capace di trarre le ovvie conclusioni da questi fatti, ogni residuo dubbio sarebbe stato fugato proprio dallo stesso Di Maio: nel novembre del 2020 pubblicò su Il Foglio, 10 proposte “per una svolta”, come diceva il titolo. Forse per la vaghezza dei concetti, forse per gli interessi che si proponeva di tutelare, la lettera piacque anche a Brunetta (all’epoca non ancora Ministro) il quale giudicò Di Maio “molto vicino ad alcune posizioni di Forza Italia” e, intuendo che qualcosa fosse nell’aria, affermò che in lui aveva visto “la fatica che fanno i veri leader, la più gravosa, quella di rendersi protagonisti della necessaria metamorfosi delle forze politiche che guidano”. Non può stupire che lo stesso ex Capo politico del M5S abbia definito il proprio Movimento “moderato e liberale” in una intervista a Repubblica lo scorso 24 febbraio. Già la scelta delle testate basterebbe a trarre conclusioni.

Tenendo presente questo percorso si comprende appieno il significato di un video girato appena tre giorni prima, il 21 febbraio, in cui Di Maio auspicata che il suo partito accogliesse Conte “a braccia aperte il prima possibile perché è una risorsa per il Paese e incarna i nostri valori”; auspicio ribadito dall’ex Ministro della Giustizia Bonafede sul Fatto quotidiano.

Chi avesse pensato che fosse un preludio ad un suo futuro incarico nel M5S ci avrebbe visto giusto: appena una settimana dopo, il 28 febbraio, Conte ricevette, dal garante Beppe Grillo, niente meno che l’incarico di “rifondare” il partito, stilandone un nuovo statuto e una carta dei valori. Un Capo che incarica un altro Capo di rifondare il partito di cui è Capo.

Parallelamente si è mosso anche Casaleggio che non ha partecipato al “vertice”, concluso con l’incarico a Conte, ufficialmente per impegni pregressi, ma che pochi giorni dopo, il 10 marzo, ha pubblicato il proprio Manifesto ControVento, nel quale ribadisce le tradizionali parole d’ordine del Movimento 5 stelle.

La divergenza di opinioni si è conclusa, per ora, con la separazione di Rousseau e del Movimento annunciata il 24 aprile, ufficialmente per mancati pagamenti dei parlamentari alla piattaforma ma a loro volta causati proprio da dissidi sulla linea politica. Il dibattito però lascia interdetto lo spettatore poco avvezzo di contese di potere perché ufficialmente le posizioni dei due gruppi, quello “tradizionalista”, capeggiato da Casaleggio, e quello “innovatore”, i contiani, su tanti degli aspetti sempre considerati fondamentali per l’ideologia del Movimento 5 Stelle, sembrano tanto vaghe quanto indistinguibili.

Conte e Casaleggio

Possiamo trarre qualche esempio confrontando il citato Manifesto di Casaleggio con l’intervento di Conte alla Assemblea congiunta dei gruppi parlamentari di Camera e Senato, pubblicata il 2 aprile. Le loro buone intenzioni sono fatte di ecologismo (che ormai va su tutto), partecipazione, meritocrazia, diritti digitali. Anche rispetto all’organizzazione interna le posizioni sembrano sovrapponibili: entrambi rifiutano le correnti, cosa comune in tanti partiti della seconda e anche della prima repubblica, visto che sempre chi guida un partito è contrario a dare spazi di organizzazione al dissenso; entrambi mirano a strutturare il partito con persone dedicate a specifici argomenti o settori, che Casaleggio chiama ampollosamente “Ambasciatori della partecipazione” e che non sembrano distinguibili da quelle figure di coordinamento di cui parla anche Conte, già conosciuti da tutti i partiti che fanno riferimento a dipartimenti o aree tematiche o, più prosaicamente, ad esperti; entrambi vorrebbero la creazione di una scuola di formazione di partito per evitare improvvisazioni che, evidentemente, ci sono state; e l’immancabile apertura alla “società civile” o “cittadini dei territori” che dir si voglia, anche questo già sentito in tutti i partiti ma che, detto da coloro che si promettevano di essere un’aggregazione “dei cittadini”, suona un po’ ridondante. Cittadini che vogliono coinvolgere cittadini per fare un partito di cittadini. Ridondiamo anche noi.

Ed entrambi affermano il valore dell’indipendenza della gestione della piattaforma da parte di un soggetto estraneo al Movimento stesso. Ma – e qui i nodi vengono al pettine – Conte immagina una piattaforma digitale totalmente funzionale alle esigenze della direzione politica, che si limiti a permettere agli iscritti di esprimersi “sui passaggi politici più rilevanti”, quindi un mero strumento tecnico. Casaleggio sembra invece volere un meccanismo più sofisticato che permetta di raccogliere le istanze “dal basso”, come si suol dire, e con progressivi passaggi ottenere di volta in volta una sintesi che metta d’accordo almeno la maggioranza dei partecipanti.

Sicuramente questa seconda idea è più vicina al concetto di democrazia diretta mentre quella di Conte consiste nel relegare gli iscritti a meri ratificatori senza reale capacità di incidere perché messi davanti al fatto compiuto.

Ma paradossalmente questa seconda modalità, a dispetto dei buoni propositi di Casaleggio, è proprio ciò che è successo in passato nei momenti cruciali della vita interna del Movimento 5 Stelle. Si pensi al voto sul Governo giallo-verde avvenuto dopo che le trattative erano già concluse; o alla fine dello stesso governo, definitivamente stabilita in un vertice a casa di Grillo il quale incontrò altre 7 persone tra cui Di Battista e lo stesso Casaleggio, due privati cittadini, così avviando la nascita del Governo giallo-rosso sul quale, di nuovo, gli iscritti votarono solo dopo che i giochi erano fatti; o ancora alla riconferma di Di Maio a Capo politico nel maggio 2019 dopo la sconfitta alle europee, senza analisi dei risultati, senza dibattito e senza candidature alternative. È forse democrazia diretta, questa?

C’è di più: l’intenso coinvolgimento degli iscritti, sostenuto da Casaleggio, non è compatibile proprio con l’ambigua influenza che lo stesso vorrebbe mantenere. Ruolo mai precisamente chiarito ma che faceva comunque parte del disegno iniziale dei fondatori del Movimento, Grillo e Casaleggio padre.

Il nuovo Movimento. Socialismo e cristianesimo.

Se dunque la posizione di Conte ha il pregio di eliminare residue ipocrisie, dall’altra segna una definitiva trasformazione del Movimento 5 stelle, disinnescandone la carica innovativa e ammettendo una vera e propria insostenibilità del progetto originario: il partito che ha ottenuto la maggioranza relativa dei voti alle ultime elezioni politiche sente la necessità, non di fisiologico aggiornamento del programma, ma di una vera e propria “rifondazione”. Dopo poco più di un decennio dall’inizio delle attività, prospetta un cambio, tra l’altro, del proprio metodo decisionale che nei propositi avrebbe dovuto essere il valore aggiunto capace di portare nelle istituzioni le istanze sociali che i partiti tradizionali non erano più in grado di raccogliere. E invece questo partito non solo si farà “rifondare” ma l’operazione sarà condotta proprio da una persona che, buona o cattiva che sia, non ha ricevuto alcun mandato degli iscritti, né ha mai partecipato ad alcuna elezione, avendo dalla sua solo la notorietà accumulata dall’aver ricoperto una delle massime cariche istituzionali.

Conte, inoltre, nell’intervento del 2 aprile, proclama la piena adesione al principio della democrazia rappresentativa, affermando che essa non vada (più) superata ma “rafforzata”. Pur nella sua vaghezza (concretamente, come si rafforza?) il concetto scavalca qualunque ipotesi di rifondazione perché è in completa antitesti con il progetto originario! E per di più vi è un’incongruenza tra questo sperato “rafforzamento” della democrazia rappresentativa e la sua realizzazione: come è noto il M5S ha proposto la riduzione del numero dei parlamentari che, dalla prossima legislatura saranno 400 deputati (e non più 630) e 200 senatori (dei 315 che erano). Si è detto che l’obiettivo era combattere la “casta”: ma se si denuncia che vi sia un ceto politico arroccato su sé stesso, separato dalla società reale, impermeabile ai bisogni e alle aspettative di questa, ridurne il numero, renderlo ancora più piccolo, non fa altro che rafforzarlo perché minori saranno le persone da mettere d’accordo per prendere un decisione pubblica e più difficile sarà far entrare in quel circolo chi può levare voci di dissenso. Chi voglia approfondire può leggere questo nostro articolo.

Segnaliamo per completezza che l’incongruenza regna anche nel principale alleato del M5S: il PD, dopo il referendum((Ricordiamo il PD votò NO nella prima deliberazione sulla legge costituzionale del taglio dei parlamentari, e nella seconda cambiò opinione dopo l’alleanza con il M5S.)) ha dichiarato di sostenere una legge elettorale proporzionale, per garantire il ruolo delle minoranze: era un preciso punto del programma del Governo Conte II. Ma puntualmente non se ne è fatto niente: e se l’ex segretario del PD, Zingaretti, ribadì, anche nelle consultazioni per il Governo Draghi, che tale progetto restava valido, il neo-segretario Letta è tornato a sostenere l’opposto sistema Mattarellum per dare sovra-rappresentanza alla maggioranza grazie al meccanismo dei collegi.

Nella confusione reciproca dei propositi l’accordo organico tra M5S “riforndato” e il PD è comunque uno dei punti qualificanti del programma di Conte (condiviso tra gli altri da Di Maio che ha considerato il PD un alleato strategico, da Patuanelli che ha parlato di un’asse di centro-sinistra). Direzione che non deve essere andata a genio a Casaleggio ma, per via il suo silenzio sul punto, possiamo solo dedurre che abbia temuto una marginalizzazione di Rousseau (o di sé stesso a pensar male).

Certo si conferma la velleità dei propositi di Conte, di coinvolgere gli iscritti sulle decisioni politiche, dato che la più decisiva delle scelte, le alleanze con altre forze politiche, è già discussa, valutata e decisa a priori. Un’alleanza, segnaliamo, avviata con un segretario del PD diverso da quello attuale, il quale, se piove di quel che tuona, non è detto affronterà le elezioni.

Inoltre l’unico intervento pubblico di Conte, nella sua nuova veste di capo-rifondatore, dà adito a pensare che i pilastri dell’alleanza saranno quelli ai quali il PD ha abituato gli italiani negli ultimi anni: il 29 aprile, infatti, Conte ha partecipato, insieme ad Enrico Letta ad una conferenza streaming promossa dall’Associazione Le Agorà, di quel Goffredo Bettini, diventato noto al grande pubblico solo di recente, per essere stato il coordinatore dell’operazione “transfughi” che, se fosse riuscita, avrebbe portato alla formazione del Conte-ter. Vi sconsigliamo di ascoltare la conferenza: sono state un paio d’ore di chiacchiere per addetti ai lavori, in cui si sono ripetuti i soliti discorsi che, a nostro giudizio, sono una delle cause della disaffezione alla politica di ampie fasce della popolazione. Quello che è importante è che la partecipazione di Conte manda un segnale della direzione che lo stesso vuol far prendere al suo partito: il Manifesto della associazione riporta come sottotitolo un lapidario “socialismo e cristianesimo” e nel manifesto si chiede “Una sinistra che passi dalla filosofia alla prassi, dal primo Cristianesimo estraneo alle vicende pubbliche, al San Paolo “politico”, che mina le fondamenta dell’Impero romano”. E il Manifesto è stato presentato il 10 aprile su Il Riformista, giornale di proprietà dell’imprenditore Romeo, proprio quello nei cui confronti è stato chiesto il rinvio a giudizio insieme a Renzi-padre per la vicenda Consip.

È opportuno soffermarsi su questo punto per capire l’importanza della scelta di Conte: tale giornale si è fatto portavoce, di tesi sul sistema giudiziario opposte a quelle del Movimento 5 stelle. Questo, bisogna ammettere, negli anni, ha proposto norme coerenti con la richiesta di maggiore legalità e di efficienza del sistema penale. Ed alcune le ha anche realizzate durante il Governo giallo-verde con la legge Bonafede: in primis l’eliminazione del trucchetto della prescrizione, che fino al 2019, permetteva la salvezza del colpevole grazie trascorrere del tempo, anche dopo doppia condanna in primo e secondo grado, assurdità tutta italiana che negli anni ha permesso di cavarsela anche a tanti politici accusati di gravi reati contro la pubblica amministrazione, di destra e di sinistra, da Berlusconi a Penati. Inoltre la stessa legge ha previsto la punizione della corruzione in carcere, e non più ai domiciliari, oltre all’utilizzo di strumenti investigativi più penetranti, quali l’agente sotto copertura.

Queste norme di buon senso, che esistono in tutto l’occidente, sono state bollate, sul Riformista, come “populismo giustizialista”, sulle cui pagine la prescrizione è invece considerata un “caposaldo di civiltà”. Per chi voglia farsi un’idea sulla base dei dati rimandiamo a questo articolo nel quale spieghiamo che è la prescrizione stessa che allunga i processi. Qui è importante sottolineare che tra le poche cose che piacciono a quel giornale vi è il vecchio cavallo di battaglia berlusconiano della separazione delle carriere, cioè di eliminare l’indipendenza della pubblica accusa e di sottoporla al volere del Governo. Insomma, tutto il contrario di quanto ha proposto dal M5S fino a ieri. Volgiamo sperare che Conte fosse ben a conoscenza di tutti questi elementi: ma dobbiamo anche dedurne che la sua partecipazione sia stata un segnale di quelli che i politici italiani sanno mandarsi tra di loro, per far sapere come la pensano veramente sulle cose importanti. Di sicuro i due dogmi dell’originario Movimento 5 stelle “non ci alleeremo con nessuno” e “non siamo né di destra né di sinistra” finiscono in una democristianissima operazione di conservazione catto-comunista, con buona pace delle giuste istanze di ripristino della legalità ed effettività delle sanzioni.

Queste tensioni sono probabilmente collegate alla vicenda, che di tanto in tanto riemerge, del terzo mandato. Il suo divieto è considerato un punto qualificante da Casaleggio mentre Conte è (molto) più possibilista. Il gruppo parlamentare, secondo indiscrezioni apparse sui giornali, che non risultano smentite, sarebbe diviso: la vecchia guardia vorrebbe quantomeno una deroga sostenendo che così tutti beneficerebbero della propria esperienza. Invece chi ha solo un mandato alla spalle, impaurito dalla previsione che una probabile diminuzione dei voti al partito si saldi alla diminuzione dei seggi disponibili, e ne impedisca la rielezione, vorrebbe mantenere il limite di due mandati.

In conclusione l’operazione che si sta compiendo nel Movimento 5 Stelle, dietro alle consuete parole identitarie, nasconde una radicale trasformazione dello stesso: lasciando cadere tanta dell’idealità e della diversità sbandierata negli anni, sembra diventare un partito come gli altri, governato dalle stesse logiche nelle finalità, nella strategia e nei suoi metodi decisionali.

Azzardiamo una previsione: il M5S nel 2018 non è riuscito a pescare voti dall’astensione, che è invece aumentata, ma ha ricevuto i voti degli elettori in fuga dagli altri schieramenti. Chi ha votato questa nuova alternativa, non accetterà di tornare al partito dal quale era scappato.

Lascia un commento