L'emendamento salva-Mediaset. La politica usa il pretesto dell'italianità per fermare Vivendi.

di Marco Ottanelli e Gabriele Pazzaglia

Qualche settimana fa una sentenza della Corte di Giustizia europa ha segnato un punto di svolta nel conflitto tra il gruppo Fininvest-Berlusconi e l’azienda francese Vivendi per il controllo di Mediaset che si trascina dal 2016. Il Governo ha approvato una norma che tutela gli interessi di Berlusconi e di Mediaset e infrange le promesse di ripristinare il pluralismo nell’informazione televisiva che i partiti di maggioranza avevano preso in campagna elettorale.

Un breve riassunto della storia e dei termini della questione: nel 2016 i rapporti tra Mediaset e Vivendi sembrarono iniziare nel migliore di modi, l’8 Aprile le due società conclusero un «accordo strategico industriale» per stare al passo con il rapido sviluppo tecnologico del settore di trasmissione audiovideo, sconvolto dall’avvento di internet, ed avere così le risorse per «cogliere nuove opportunità di sviluppo sullo scenario globale»[1].

L’alleanza era suggellata dallo scambio reciproco delle partecipazioni azionarie: entrambe le società avrebbero acquisito il 3,5% dell’altra e, in più, Vivendi avrebbe ottenuto in dote il 100% di Mediaset Premium. Sulla valutazione del valore di quest’ultima l’operazione si incaglia: Vivendi comunicava l’esistenza di «differenze significative nell’analisi dei risultati»[2], sollevando così più di un dubbio sulla valutazione presentata da Mediaset. L’azienda francese proponeva quindi di cambiare i termini dell’accordo, di acquistare solo il 20% di Mediaset Premium e di ricevere un ben più interessante 15% del capitale di Mediaset (la casa-madre)[3].

Mediaset invece rigettava sia i dubbi sulle sue valutazioni che la nuova proposta, procedendo per vie legali per ottenere l’esecuzione del contratto e pure un risarcimento dei danni. I rapporti tra le due società erano così irrimediabilmente compromessi: Vivendi iniziò a rastrellare azioni Mediaset finché il 22 dicembre 2016 rese noto di possederne il 28,80%. Nonostante non fossero ancora sufficienti per scalfire il controllo in mano alla Fininvest, la cassaforte della famiglia Berlusconi, proprietaria del 40% delle azioni Mediaset[4], quest’ultima si rivolse all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) denunciando l’irregolarità della scalata.

La norma violata. O la norma è sbagliata?

Mediaset in sostanza sosteneva di non poter essere “scalata” da Vivendi perché quest’ultima aveva (ed ha) troppi ricavi rispetto alle soglie stabilite dalla famosa e discussa “Legge Gasparri”, con cui viene di solito indicato il Testo Unico sulla radiotelevisione.

Questa stabilisce un sistema molto barocco che ci obbliga a qualche semplificazione per capire i divieti in questione. In sostanza ci sono due soglie fondamentali:

  • la prima è che che nessuna azienda possa avere più del 20% dei ricavi nel settore delle comunicazioni.
  • La seconda è che tale soglia si abbassa al 10% se l’azienda ha contemporaneamente più del 40% dei ricavi in un altro settore, quello che comprende i servizi telefonici (fissi e mobili) e la diffusione del segnale radiotelevisivo.

Ed è proprio il caso di Vivendi: essa produce il 56% dei ricavi del settore grazie alla sua controllata Telecom e vorrebbe scalare un’azienda, Mediaset appunto, che ha il 13,3% del mercato delle comunicazioni, la soglia del 10% prima indicato. Per questo l’AGCOM ha obbligato la società francese a vendere la parte di azioni in eccedenza, ma essa ha impugnato la decisione davanti al Giudice Amministrativo il quale, dubitando che la legge italiana potesse non rispettare le norme europee, ha rimesso la decisione alla Corte di Giustizia Europea che, questo settembre, ha deciso in favore di Vivendi con una motivazione che smonta il sistema delle soglie stabilito dalla Legge Gasparri.

La regola delle soglie, scrive la Corte, in teoria servirebbe a «garantire il pluralismo» ma in concreto «non può essere considerata idonea a conseguire l’obiettivo da essa perseguito» perché le soglie dei ricavi (del 10 e 20%) non sono riferite, come sarebbe logico, allo specifico mercato in cui un’azienda opera, ma ad un mega-aggregato che la Legge chiama “Sistema integrato delle comunicazioni” (SIC). Oltre alla TV, esso comprende anche la stampa, la radio (e il relativo sistema di trasmissione), il cinema, e persino la pubblicità esterna (quella che vediamo sui cartelloni esposti sulla pubblica via) e le sponsorizzazioni[5].

Questa regola è l’espediente tecnico, l’escamotage, che ha permesso di camuffare la posizione dominante di Mediaset (e RAI) che nel 2004, anno di approvazione della Legge, ottenevano da sole il 90% degli ascolti della TV in chiaro e insieme a Sky (che era a pagamento sul satellite) si spartivano praticamente tutta la torta dei ricavi. Il grafico rielabora dati tratti dalla relazione dell’AGCOM del 2005

Ma ancora nelle ultime rilevazioni del 2018 la società del biscione conseguiva il 25% dei ricavi del settore televisivo (compreso quello a pagamento), grazie alla posizione di rendita nella racolta pubblicitaria, come mostra l’annuale relazione della stessa AGCOM (p. 136). Se si fosse preso in considerazione solo il mercato televisivo sarebbe stata una chiara posizione dominante, come quella della RAI e di Sky, avendo anch’esse ricavi superiori al 20% del totale. Ma proprio grazie al trucchetto di prendere come riferimento il “Sistema integrato delle comunicazioni” la quota di Mediaset viene diluita e “magicamente” scende al 13,3%: abbastanza per stare legalmente sul mercato, nonostante lo strapotere, ma troppo per essere comprata da Vivendi.

La Corte afferma che il sistema non funziona: conseguire anche più del 10% dei ricavi non porta necessariamente ad un «rischio di influenza sul pluralismo dei media» perché si riferisce a «mercati diversi e vari». Di contro se i ricavi fossero anche inferiori al 10% del totale del “Sistema integrato” ma concentrati in un solo mercato (come è per Mediaset) il rispetto formale della legge «non potrebbe escludere qualsiasi rischio per il pluralismo dei media».

In conclusione la Corte mette nero su bianco che la norma che Mediaset invocava a difesa del pluralismo è in realtà un potenziale pericolo per il pluralismo stesso. Dà così ragione a tutti i critici che all’inizio degli anni 2000 denunciavano che la Legge Gasparri avrebbe legittimato le storture dell’assetto TV italiano, un sistema non adeguato ad una sana democrazia a sua volta aggravato dal conflitto di interesse per l’attività politica di Berlusconi e il controllo della politica sulla RAI. Situazione unica nelle democrazie e che ha scandalizzato l’occidente.

L’emendamento salva-Mediaset

La politica italiana, di fronte a questa sentenza, invece di adeguarsi agli standard europei, e di applicare pedissequamente la sentenza, si è attivata per tutelare gli interessi di Berlusconi. I primi giorni di novembre, in Senato, Valeria Valente del PD, presentava un emendamento alla legge di conversione del decreto 125 del 2020, di cui lei stessa era relatrice. Il decreto era quello “recante misure urgenti connesse con la proroga della dichiarazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19 e per la continuità operativa del sistema di allerta COVID” e si è sfruttato questo procedimento già calendarizzato come una scorciatoia.

Il testo completo è molto farraginoso ma la sostanza è che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni dovrà aprire un’istruttoria quando «un soggetto operi contemporaneamente nei mercati delle comunicazioni elettroniche e in un mercato diverso, ricadente nel sistema integrato delle comunicazioni (SIC)» al fine di verificare «effetti distorsivi o di posizioni comunque lesive del pluralismo» tenendo conto «fra l’altro, dei ricavi, delle barriere all’ingresso nonché del livello di concorrenza».

Benché a prima vista la norma sembri generale e astratta, in realtà si applica ad un solo ed unico caso: Vivendi, che è l’unica azienda che operi sia nel settore della telefonia (le comunicazioni elettroniche) tramite Telecom, sia nella TV (tramite le quote di minoranza in Mediaset). Ciò è talmente palese che vari politici non hanno avuto remore ad ammettere che è ritagliata su misura allo scopo di bloccare la scalata a Mediaset. Chiamarla quindi norma salva-Mediaset è corretto, così come corretto sarebbe chiamarla anti-Vivendi.

Per nobilitarla qualcuno ha fatto richiamo al concetto di salva-italianità, come Di Maio (Fatto Quotidiano del 17/11/2020)… avrà pensato che sia una buona strategia visti i risultati entusiasmanti che ha portato con Alitalia! Altri, più prosaicamente l’hanno chiamata salva-Berlusconi (padre e figli) e sembra più giusto visto che viene garantita la loro influenza sul sistema. Il voto in commissione e poi in aula non è stato unanime ma ha visto alcune forze politiche votar contro o astenersi polemicamente; una su tutte, la Lega, e questo ha fatto irritare non poco Silvio ed il suo partito, ma anche il PD e il M5S, che, se da un lato si sono indignati verso coloro che non hanno aderito all’emendamento, dall’altro si son scambiati qualche pesce in faccia, accusandosi l’un l’altro di essere responsabile del provvedimento. Alla fine è emerso che la norma è stata elaborata in concerto tra il ministro per lo sviluppo economico, Patuanelli, M5S, e il quello dell’economia, Gualtieri, PD, che hanno rivendicato, in questo modo, di evitare un non meglio specificato “vuoto normativo”, vuoto che non ci risulta affatto essersi creato, visto che con la Sentenza è solo caduto il divieto di un acquisto che questo emendamento mira a proibire nuovamente.

Ora, per chi, in ipotesi, con una macchina del tempo, fosse stato catapultato dal decennio passato ad oggi, le sorprese sarebbero molte: egli infatti, proveniente da un’era nella quale le piazze, le tv, i giornali e i blog ribollivano e ruggivano di manifestazioni, cortei, dichiarazioni, comizi, articoli ed invettive contro Berlusconi, la sua proprietà di emittenti televisive, contro il suo oligarchico conflitto di interessi, contro la legge Gasparri, insieme additato come nefasto, cancro della democrazia, espressione di un regime che soffoca la libertà e del pluralismo, rimarrebbe oggi incredulo.
L’area politica PD-LeU, negli ultimi 20 anni, quando non ha impegnato il tempo a scindersi, ha tuonato contro “il conflitto di interesse, le leggi-vergogna, il golpe di Berlusconi”. Tanto per fare un esempio emblematico, il politico PD più in vista su questo tema, Roberto Zaccaria, deputato fino al 2013 e Presidente della RAI dal 1998 al 2002, ha addirittura intitolato un suo libro «Televisione: dal monopolio al monopolio. La Legge Gasparri «azzera» il pluralismo ed è pericolosa per la democrazia».
Ma anche l’altra componente del Governo, il M5S, ha ribaltato la sua posizione: il 25 aprile 2008 gli amici di Beppe Grillo, come allora si chiamava il partito, raccolsero le firme per un referendum abrogativo di tutta della Legge Gasparri. Non di un qualche suo articolo, proprio tutta, perché considerata uno degli strumenti che impediva la libertà d’informazione in Italia. Proprio il fallimento dell’esperienza di quei referendum pare abbia spinto gli attivisti ad entrare direttamente nell’arena con una propria formazione e fare da dentro il Palazzo quello che non erano riusciti a fare da fuori. Nel Palazzo sono entrati ma nel frattempo devono essersi scordati l’obiettivo.

Per il povero crononauta, giunto dai lontanissimi anni ’10 del XXI secolo, lo choc sarebbe violento, e forse fatale. Lo stesso che ha subito il pluralismo dell’informazione in Italia, crollato sotto i colpi di un non meglio precisato accordo di convenienza politiche. E crollato sotto il peso della ipocrita giravolta ideologica deve essere anche tutto il castello di buone intenzioni e proclami europeisti, di riferimenti alla UE e ai suoi valori, al “modello Macron”, alla legalità sovranazionale e al rispetto delle regole che, con tutte le accuse di bieco antieuropeismo ai populisti sovranisti. si sono dissolte proprio quando uno dei pilastri della Unione Europea si esprime in modo non perfettamente gradito agli equilibri interni degli italici affari e relazioni. Europeisti sì, ma solo se liberi di violare sentenze e normative!

Ma il governo, il Pd, Leu, e il M5S, riusciranno, nonostante tutti i loro sforzi, ad impedire l’operazione, a bloccare la scalata, a bloccare i francesi e a salvare il soldato Silvio? Nutriamo più di un dubbio al riguardo, visto che la Corte di Giustizia Europea nella motivazione ha scritto che non è sensato fare riferimento all’intero “Sistema integrato delle comunicazioni” mentre questa norma lo mantiene, limitandosi a eliminare la soglia. Non si può escludere una nuova dichiarazione di illegittimità che Vivendi ha già dichiarato di voler sollecitare.

Inoltre la Corte costituzionale italiana ha da tempo stabilito che le norme che sono aggiunte ad un Decreto durante il procedimento parlamentare di conversione in legge, devono essere omogenee con il testo originale, cioè devono trattare dello stesso argomento. Altrimenti non vi sono i requisiti di “straordinaria necessità ed urgenza” che legittimano il procedimento legislativo accelerato che comprimono i tempi parlamentari. Può il covid legittimare una scorciatoia per norme sulla proprietà di un’azienda quotata in borsa? Francamente ne dubitiamo. Ma intanto, Mediaset ha guadagnato molti mesi. Ed un sonoro 35% in borsa.

A proposito di borsa…

Come abbiamo detto, non tutto il Senato ha gradito l’emendamento. Tra i critici, anche il sen. De Falco, uscito dal M5S in polemica, a suo tempo, proprio con la Lega che stavolta ha trovato, nel solito frullato che è la politica italiana, sulle sue stesse posizioni. Segnaliamo un articolo di De Falco quale utile sunto delle motivazioni di chi ha votato “no”. Egli ricorda che un Decreto del 2012 (il n. 21) dà la facoltà al Governo di impedire gli acquisti stranieri o di porvi condizioni: «mentre i cugini francesi più volte l’hanno schiettamente utilizzato anche nei nostri confronti, il nostro governo non l’adopera, e in questo caso ha preferito agire in modo surrettizio». A nostro avviso il senatore coglie nel segno nel rimproverare la doppiezza del Governo, che non utilizza un potere che la legge gli riconosce, preferendo scaricare la responsabilità sull’AGCOM, un’Autorità formalmente indipendente i cui vertici sono però scelti dalla politica (Governo e Parlamento).

Ma ancora più importante è quello che il senatore dimentica: in un altro caso il Governo, la clausola della Golden Power l’ha usata, e di recente! Siamo a marzo scorso, nel pieno della tempesta borsistica causata dalla pandemia, e i titoli crollano. Una piccola s.p.a. lombarda, la Molmed, che operava nella ricerca medica (cure per il cancro e altre gravi malattie) si vede oggetto di un’OPA, una proposta di acquisto, da parte di una multinazionale a controllo giapponese, la ACG Biologics, del gruppo Mitsubishi. Il valore delle azioni schizza verso l’alto, guadagnando il 110 % in pochissimi giorni. A quel punto, però, il governo interviene e pone una bella clausola alla ACG: se vuole continuare la sua scalata, dovrà rispettare una serie di prescrizioni tutte improntate all’italianità. Molmed è sacra, e va difesa! O gli offerenti si adeguano, o il governo farà scattare la Golden, così “salvando” Molmed dalle grinfie nipponiche. Si entra così in una fase di incertezza; le azioni arretrano di un buon 10% in attesa della decisione di ACG; chi non regge la tensione svende e chi può – e soprattutto chi ha modo di… intuire il futuro, rastrella titoli a man bassa. E aspetta. E fa bene ad aspettare perchè il 10 luglio la Biologics “rinuncia alla rinuncia”, per dirla nel complesso linguaggio finanziario, insomma accetta le clausole e conferma l’acquisto della Molmed, le cui azioni risalgono di botto. L’azienda milanese viene inglobata, delistata dalla borsa italiana e diventa una parcella di una enorme company mondiale, ma radicata in Italia e con precisi doveri sottoscritti nella “condizione Golden Power”. Tutto molto tipico dei giochi dell’alta finanza, sembrerebbe, ma cosa c’entra con questo articolo? Ciò che mette le due vicende in relazione è che l’azionista di riferimento di Molmed era… la Fininvest. Era la famiglia Berlusconi, che, secondo i calcoli, godono un favoloso ricavo finale di 55,5 milioni di euro. Una bella triangolazione borsa-Fininvest-Governo che a De Falco era sfuggita.

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